Un bagno di pretattica. L’ultimo confronto del centrodestra per la scelta dei candidati sindaci delle grandi città che andranno al voto ha soddisfatto tutti senza decidere nulla. Sui giornali fioriscono indiscrezioni, nomi di ogni genere. Persino gustosi siparietti, come quello riportato da Il Foglio secondo cui, a Berlusconi che avrebbe proposto a sindaco di Milano niente-poco-di-meno-che il mitico Franco Baresi, Ignazio Larussa, cuore interista, avrebbe replicato ipotizzando la candidatura dell’altrettanto mitologico Walter Zenga. Poi c’è Sgarbi che, lanciatosi nel progetto Rinascimento a Roma, attende che qualcuno lo segua e intanto pizzica il centrodestra ancora tentato da Massimo Giletti: “a questo punto perché non Checco Zalone?”.
Siamo alla pretattica, insomma. Tanti nomi, mediatici o civici, grande attenzione sui palchi principali di Roma e Milano. Il grande assente, per ora, è la politica.
Tempo di responsabilità
La scelta di privilegiare candidati civici, come caldeggiato da Matteo Salvini e sostenuto da certa parte di Forza Italia, non sarebbe granché lungimirante. Magari alcuni candidati, forti della propria immagine, potranno anche vincere le elezioni ma, di sicuro, perderebbe il centrodestra. Per un motivo molto semplice: ammetterebbe la sua subalternità culturale e politica.
Il nodo, infatti, è legato allo stato di emergenza in cui viviamo. Il Covid, come sappiamo, sta stravolgendo le vite dei cittadini e impone, anche alla narrazione quotidiana (a torto o a ragione, non è questa la sede) un lessico emergenziale che assomiglia a quello bellico, di guerra. Per fronteggiare la battaglia c’è bisogno, più che mai, di quegli orizzonti, di quelle visioni e di quei progetti a lungo termine che competono alle responsabilità della politica. Mentre c’è bisogno impellente di politica, che peraltro ha bisogno di riprendersi la sua centralità dopo anni di anti-politica e di farlo assumendo su di sé le responsabilità enormi che le derivano dal suo ruolo in questo momento storico, non si può delegare alle forze della solita “società civile”, come se fossimo ancora negli anni ’90.
Basta “calciomercato”
Ancora più semplice: cercare candidati fuori dai propri ranghi potrebbe, in questa fase storica, sancire l’ennesima auto-bocciatura. Sarebbe, agli occhi dei cittadini, un’ammissione di incapacità o, se volessimo essere cattivi, di impresentabilità della propria classe dirigente, nella ripetizione, l’ennesima, di quello stanco (e fuorviante…) ritornello per cui destra e centrodestra vincono solo se si presentano “commissariati” o, almeno, fortemente caratterizzati al centro o addirittura fuori dalla politica stessa. Farlo quando il pallino dell’antipolitica è ormai saldamente in mano ad altre forze partitiche assume i contorni di una sorta di revival.
Certo, siamo ancora al prologo e, ora, sul banco c’è soltanto pretattica. Un bagno, appunto, di pretattica. E speriamo che il centrodestra rinsavisca quando ci sarà da entrare nel merito delle scelte. È proprio quando il gioco si fa duro, dice quel motto, che i duri iniziano a giocare. E allora, perché nel momento più duro della storia recente del nostro Paese ricorrere – con Baresi e Zenga, Giletti e i grandi nomi dell’impresa – al calciomercato invece di valorizzare il “vivaio” dei partiti?