Invece che di due ragazzi desiderosi di maritarsi a dispetto dei tanti guai – I Promessi Sposi – la storia narrata dall’Alessandro Manzoni della Little Italy, ovvero Mario Puzo, è quella di un Re, don Vito, con tre figli maschi cui affidare il proprio regno: Santino, Michael e Fredo.
Un Re, dunque, e tre figli. Forse il lavoro non è venuto bene. Dopo tre anni di scrittura – fermentato in un seminterrato, all’ombra di un grande biliardo – ne viene fuori sformato ma, confezionato al meglio del pop con in copertina la mano nera che agguanta i fili dei pupi, va via come il pane.
Lui stesso, “un contadino italiano che si è fatto un pezzetto di terra”, lo ripeteva alla moglie e ai suoi bambini: “Sto scrivendo un best-seller”. Autore di discreto successo, rispettato dalla critica letteraria, già dal suo primo titolo The Dark Arena, Puzo – nato a New York il 15 ottobre 1920, morto a Long Island nel 1999 – ne ricava un ruolo importante ma non risolutivo.
“Avevo 45 anni”, racconta, “dovevo decine di migliaia di dollari a parenti, banche, società finanziarie, allibratori ed usurai, era arrivato il momento di diventare adulto e fare fortuna”. E la fortuna gli si mette accanto quando gli arriva un’offerta di quattrocentomila dollari per la prima sceneggiatura del Padrino e per i diritti. Telefona alla madre per darle la notizia e lei gli risponde così: “Forse sono quaranta?” “No”, precisa il figlio, “proprio quattrocentomila.” La madre, Maria Le Conti, forgiata nella tipica diffidenza contadina, sentenzia: “Troppi, allora c’è sotto qualcosa”. Il vecchio odore della miseria delle sue origini riaffiora da Hell’s kitchen, la cucina dell’inferno, come Puzo ha ribattezzato il quartiere della sua infanzia, insieme al senso di vuoto e di diffidenza causato dall’abbandono del padre. Un inferno dal quale ne esce trasformando in successo tutto quel Sud d’Italia che lo plasma già dalle budella.
Il Padrino è la trasfigurazione dell’esistenza di un ragazzo deciso di fare della letteratura un mestiere e che a sedici anni va solo per biblioteche. La vita a Little Italy non è facile per una famiglia numerosa come la sua. Anthony Puzo, il padre, operaio alle ferrovie, arrivato con la moglie da Pietradefusi, sperduto paesino in provincia di Avellino, lascia la famiglia quando Mario è un ragazzino di dodici anni. La madre si trova a crescere da sola i figli nell’America della grande depressione dove è appena arrivata. In una bellissima intervista a Vittorio Zucconi, Puzo racconta questa sua spontanea intersezione col Padrino per tramite della madre: “Il mio modello è stata lei donna bellissima e silenziosa ma implacabile contro chiunque facesse un torto alla sua famiglia. In quel caso, andava in un’osteria del quartiere a parlare con un vecchio signore distinto, seduto sempre allo stesso tavolo. Dopo quella conversazione, giustizia era fatta”.
Francis Ford Coppola non ha ancora trent’anni quando, incaricato dalla Paramount, sta leggendo quello che a una prima impressione è solo una vicenda di “stupidità e sesso” ma anche lui, come Puzo, ha una famiglia di tre figli cui procurare il pane e perciò si fa piacere il libro per farne una storia classica, quella di un sovrano in cerca di degni eredi per il proprio regno.
Un re con tre figli, allora. Un canovaccio shakespeariano, una tragedia della lirica greca, un cuntu della tradizione orale siciliana: “Ho amato Mario come si ama lo zio preferito”, annoterà Coppola, “era divertente stare con lui, era caldo, saggio, divertente e affettuoso, parlava sempre di sua moglie e dei suoi figli”. Insieme preparano le sceneggiature dei tre film, e per i primi due ottengono l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale. Per preparare le scene, Coppola e Puzo s’incontrano a casa del regista, lavorano con il rumore dei bambini in sottofondo e pranzano con pasta al pomodoro e vino rosso. A Puzo tocca la sintesi delle corpose note di sceneggiatura di Coppola. Nella scena in cui Clemenza descrive una ricetta di Michael, “Prima fai rosolare la salsiccia…”, Puzo corregge: “I gangster non rosolano, friggono”. Puzo ama le mozzarelle, le salsicce, i cannoli e il gioco d’azzardo. Quando a volte se ne vanno a lavorare in un palazzo al cui interno c’è una bisca, Puzo, ridacchiando, dà di gomito a Coppola e gli dice: “Perdo migliaia di dollari giù e ne faccio milioni di sopra”.
S’è favoleggiato che nel personaggio di Don Vito Corleone, ci sia il boss Vito Genovese mediatore con le forze armate americane per l’invasione della Sicilia del 1943. Un altro boss, Joe Gallo, chiede di conoscerlo per appropriarsi della maschera di don Vito ma Puzo garbatamente si nega. Il padrino del terzo volume della trilogia, “L’ultimo Don” si chiama Clericuzio, il soprannome di famiglia della madre e così “don Mario” chiude il cerchio d’immedesimazione con se stesso e con la propria storia. Non senza un abbellimento rispetto alla realtà quando per don Vito, per assomigliare alla migliore delle trasfigurazioni e dire finalmente, con Flaubert, “Madame Bovary sono io”, Puzo vuole Marlon Brando. Così da poter dire, “don Vito sono io”.
Interessante articolo, il problema è che non si rischia di presentare i mafiosi come degli eroi positivi?