«Poesia, struggenti inchieste / sulla verità dell’essere, / scegliemmo la tua scorciatoia. / Non ci ha portati lontano, / no davvero.»
Comincia così Poesia triste sulla poesia di Vittorio Bodini, che fa parte di una raccolta non pubblicata Zeta (1962-1969), il cui titolo allude probabilmente alla fine di un percorso (la lettera zeta è l’ultima del nostro alfabeto). Il poeta è come un atleta che prende lo slancio per il salto con l’asta, ma non supera l’ostacolo e cade rovinosamente al suolo. Ora, la poesia autentica ha sempre un nucleo filosofico, più o meno latente, perché, come scrive il filosofo Ortega y Gasset in Che cos’è la filosofia? il desiderio di «dare integrità al mondo, che è la radice della filosofia […] è l’atteggiamento innato e spontaneo della nostra mente nei confronti della vita». Il poeta non è riuscito nella sua ricerca a trovare un senso alla vita e i suoi versi documentano una sconfitta, uno scacco esistenziale e filosofico. A questo esito non fu certamente estraneo il clima politico e morale del dopoguerra così magistralmente raccontato da film come Il sorpasso di Risi o L’avventura di Antonioni. Bodini infatti che aveva militato nel movimento «Giustizia e libertà» fondato dai fratelli Rosselli, dovette constatare che gli ideali professati non trovavano cittadinanza in un’Italia frivola, corrotta, vuota, stordita dal miracolo economico: «Il poeta assiste sconcertato alla crescita economica disordinata di un’Italia che vuol lasciarsi indietro l’atavica miseria a qualunque prezzo, e sente l’esigenza di fermarsi, di riflettere» (Gianmario Lucini).
Il disincanto del poeta
Può sembrare che ci sia uno iato tra la prima produzione poetica di Bodini La luna dei Borboni (1950-1951) e quella successiva di Metamor (1962-1962). Sennonché c’è un filo conduttore nel progressivo disincanto del poeta: dal simbolismo barocco e surreale de La luna dei Borboni tra accettazione e rifiuto della realtà, dove però «tutto è fatuo, tutto è onirico e sfuma quando cerchiamo di afferrarlo. Allora ci accorgiamo del nulla e del vuoto» (Giovanni Invitto, Poesia e/è filosofia, relazione al convegno di studi su Bodini, Lecce, 4 dicembre 2014); all’ermetismo spinto (con qualche felice eccezione) di Metamor, emblematico «di un punto di arrivo senza alcuna possibilità di ripresa o di esito positivo delle attese». Lo testimonia quella che a nostro avviso è la più bella poesia di questa ultima fase Tramonto a San Valentino, che conclude Metamor: «L’uomo che s’affeziona al proprio deserto/ guarda la proditoria brace/ che scolora tra i platani/ e sa che il suo pensiero un tempo amante di sfide/ non sa andar oltre e quasi di quel limite/ s’accontenta./ Lo sfiora appena il sospetto/ d’essere prediletto/ da quel rosso nulla». E non ci resta che sottoscrivere la chiosa puntuale di Giovanni Invitto: «È il rosso metaforico di un tramonto con cui il pensiero rinunzia a ulteriori sfide. È la fine di una filosofia, ma quella poesia permane ancora». Il pensiero è in situazione di stallo, però la poesia dura ancora in quella luce che si va spegnendo.