Ieri sera ero a casa, a cena con amici. Fatalmente, a un certo punto si è parlato del referendum e si è determinato un orientamento che, a mio avviso, rispecchia quello che sarà il risultato delle urne: otto per il sì, due – fra cui io – per il no. Aggiungo che la composizione social-professionale degli intervenuti era abbastanza varia da fornire una qualche attendibilità al mio micro-sondaggio; ma non è su questo che voglio soffermarmi, anche perché non sono un esperto di rilevazioni statistiche. Quello che mi ha colpito ieri sera, in un generalizzato – e del tutto condivisibile – clima di disistima per l’attuale ceto politico, è stato l’atteggiamento di uno dei miei più cari e stimati amici, dichiaratosi a favore del “sì”.
Il mio amico, un profondo e colto studioso di religioni, fieramente avverso, fra l’altro, a questo governo dove sono rappresentate le peggiori – per lui e per me – tendenze dei nostri tempi, e cioè, alla rinfusa, le spinte mondialiste e antiidentitarie, la secolarizzazione edonista e nichilista, la cultura dei diritti a 360 gradi e quella del “gender”, il populismo plebeo e senza ideali, il progressismo vacuo e genericamente immigrazionista della chiesa bergogliana, e via elencando, ebbene questo mio amico voterà “sì”, non “di pancia”, ha precisato, ma “di testa”.
Forse lo avrei capito, se avesse fatto un ragionamento in stile “cavalcare la tigre”, cioè montiamo sull’onda della dissoluzione, cerchiamo anzi di accelerarne il moto in avanti, per tornare se non a un’età dell’oro, a una stagione più vicina al suo – al nostro – sistema di valori. E invece no, forse anche perché lui è non già evoliano, bensì guénoniano: lui ritiene che solo la conferma popolare di una legge sia pure monca e semplicistica possa avviare a un cambiamento, che ovviamente – ma senza troppe illusioni – si augura.
Ho avuto un bel da fare a spiegare a lui e agli altri, accomunati peraltro da un’avversione non solo viscerale nei confronti dei pentastellati, che proprio la vittoria del “sì” ridarebbe ossigeno a questa forza devastante per la politica, la società, il futuro di questa disgraziata Italia (e Roma ne costituisce l’esempio più chiaro e doloroso). E aggiungevo che soltanto l’eventuale (improbabile) abbinamento di un successo del “no” e di un trionfo del centrodestra alle regionali darebbe adito a qualche concreta speranza di cambiamento.
Mi è stato opposto un muro di pessimismo, basato sull’immobilismo conservativo di Mattarella e dell’establishment, di cui i cinque stelle ormai fanno parte integrante. Per tacere dell’argomento principe: nessuno degli attuali parlamentari farebbe mancare la fiducia al governo, ben consapevoli, questi “onorevoli”, che molti di loro dovrebbero tornare alle originarie occupazioni (o disoccupazioni).
Eppure, malgrado condividessi quelle considerazioni, ho esortato a sperare sempre, e a fare il possibile, con l’unica arma lecita a disposizione del cittadino elettore, per scardinare questo sistema, di cui il governo attuale è solo il terminale sciagurato. Ho parlato della nobile funzione della politica, che resta tale, ad onta degli attuali rappresentanti e ho invitato i miei amici a puntare sul futuro. L’Italia non è mai stata una fucina di rivoluzioni, e dunque ogni cambiamento può passare unicamente attraverso congiure di Palazzo, iniziative giudiziarie (negli ultimi decenni), e, per ultimo ma non da ultimo, rivolgimenti elettorali.
Difficile? Sono d’accordo; ma in fondo chi aveva previsto la Bastiglia o la caduta del Muro di Berlino?
Ma è così terribile provare a non pagare oltre lo stipendio ai vari Razzi, Sgarbi, Brambilla , Ghedini e via elencando?
Ma la società italiana è forse oggi meglio? Basta scorrere un po’ di forum e blog per dubitarne assai…