Il rapporto tra Giorgio Bocca, Napoli e il Mezzogiorno è riassumibile in pregiudizi, cattivi racconti e speranze. Tanto che è difficile scriverne senza consegnarsi al neoborbonismo con l’orgoglio ferroviario che comincia e finisce sulla linea Napoli-Portici. Ma è anche vero che senza iscriversi alla contrapposizione Nord-Sud, è facile dargli torto. Per questo va subito detto che Bocca – innegabilmente venerato maestro del giornalismo – aveva letto i meridionalisti, a differenza di tantissimi meridionali che lo contestano, che conosceva Gramsci e Salvemini, Scotellaro e Alvaro, e giù giù fino a dare ragione – tra i pochi – a Leonardo Sciascia. Ma il punto era Napoli, Bocca era un impressionatore di Cazzaniga: il direttore del personale dell’Alfasud, famoso personaggio di Luciano De Crescenzo in “Così parlò Bellavista”, tanto che in moltissimi articoli e poi in diversi libri ha sicuramente fustigato – e con ragione – gli evidenti cattivi costumi napoletani, ma ha anche alimentato il peggio dei luoghi comuni. Generando la preoccupazione del Nord che doveva scendere al Sud, e nel tentativo di avvicinare le due Italie ha servito quella padana e non quella garibaldina come immaginava, diceva e scriveva. Per brevità e per amore di Riccardo Pazzaglia – senza scomodare Raffaele La Capria che scrisse di Bocca che era «troppo sprofondato nella mentalità piccolo settentrionale» – ci occuperemo del rapporto tra Giorgio Bocca e i semafori napoletani. Che è tutto da ridere, e ridendo vengono fuori le cadute bocchiane. Consideratelo un apologo. Nel dicembre del 1989 su “La Repubblica” di Eugenio Scalfari, per molti con una valenza superiore al Vangelo come sottolineerà anche Antonello Venditti in una sua canzone, Giorgio Bocca, rispondendo a Giuseppe De Rita, direttore del Censis, sull’Italia triste che fa soldi, e sulla distanza tra paese reale e narrazione, piazza un colpo a tre sponde e scrive: «Il nostro è il paese dove il sindaco di una grande città, l’Achille Lauro di Napoli, trovata unica al mondo, un giorno abolì i semafori certo che l’intelligenza dei napoletani se la sarebbe cavata meglio di loro. Ma non vi sembra che ci sia un po’ di Lauro nei sindaci che ci ritroviamo?». A parte la gioia immediata per l’urlo liberatorio di Totò: «W Lauro» al “Musichiere” sotto gli occhi increduli di Mario Riva, viene da cercare se la cosa è veramente successa, e non trovandone prova, dopo ricerche e consultazioni, si è portati a pensare che quello fosse un pregiudizio, e, che, approfittando di altre colpe laurine – non bastava “Le mani sulla città”? – Bocca avesse scaricato l’inno all’anarchia automobilistica napoletana, vecchio cavallo di battaglia, sul comandante Lauro, per una volta incolpevole attore di una commedia degli equivoci. A parte che quando successe davvero, nel 2007 impazzirono i semafori di Napoli, le cose andarono proprio come aveva immaginato Lauro secondo le invenzioni letterarie di Bocca, una giornata migliore nel traffico cittadino.
Per questo ci viene facile vederlo come un sir James Brooke salgariano, “Rajah bianco di Napoli”, con i tassisti napoletani pronti ad accontentarlo. «Ma è vero che Lauro spense i semafori?». «Yes, sir». Come quando in “Benvenuti al sud” si ricrea la cittadina sulle paure e i pregiudizi della signora del nord.
James Brooke Bocca scriveva: «Napoli ha due cose che a gran parte delle città italiane sono sconosciute: la plebe e la metropoli antica come Alessandria, come Calcutta come Bombay dove un numero sterminato di persone sopravvivono prima di vivere, dove ogni giorno folle enormi si mettono in moto cercando la sopravvivenza senza sapere bene dove trovarla». A differenza dei semafori, queste due cose hanno un fondamento ma nei paragoni c’è una sproporzione perché a Calcutta nessuno si metteva in fila per i saldi come accadeva mentre Bocca faceva questi paragoni, riscrivendoli sotto forma di rivincita durante la crisi della spazzatura, e dimenticando proprio la terza cosa delle metropoli: che sopravvivono sempre al racconto di chi esagera, per smentirlo. [uscito su IL MATTINO]