UN DOCUMENTO più che un documentario. Un gioiello di sabbia, argilla e paglia essiccata. Ed è un vero peccato che i vari GiggiUno della Rai mai e poi mai ne daranno conto (forse perché nei bazar d’Iran si parla sempre male del governo?).
“Sentieri Persiani” il film in tre parti, in esclusiva su Loft, realizzato da Alessandro Di Battista arrivando a Teheran cinque giorni dopo l’uccisione di Qassem Soleimani, è ben più che un reportage, è un bagno di realtà, dunque un regolamento di conti con la nostra malafede di verità precostituite: “Nulla di tutto ciò che si racconta dell’Iran”, racconta Di Battista, “si vede andando in Iran”.
Il capo delle Guardie della Rivoluzione vigliaccamente colpito da un drone americano il 3 gennaio del 2020, per una sorta d’intersezione dell’invisibile si aggiunge a un altro sfacciato delitto: quello che il 31 agosto del 1978 vede vittima l’imam sciita Moussa Sadr, fatto assassinare – e sparire – da Muhammar Gheddafi. Il leader libico elimina dalla scena del Medio Oriente il carismatico imam libanese, fondatore del Movimento dei diseredati (un gruppo di dialogo e di apertura nella complessità mediorientale) e così avvantaggia l’inferno in terra perché senza più Moussa Sadr sia i musulmani che i cristiani di Iran, Siria, Libano e l’intero Maghreb perdono il loro unico possibile Gandhi in cammino verso la pace (ma guadagnano un nuovo martire sul sentiero della fede).
Donald Trump si fa carico di ammazzare l’eroe della guerra all’Isis, liberatore dei villaggi cristiani in Siria – prima tra tutti Maolula, restituendo all’altura che sovrasta la città la statua della Madonna abbattuta dai fondamentalisti islamisti – e uccidendolo dà un vantaggio materiale ai terroristi e ai loro burattinai mentre ai persiani, ed è un dono spirituale, regala un nuovo martire. Il generale Soleimani è un soldato. Dice Di Battista chiudendo la prima parte del suo reportage: “Siamo sicuri che ucciderlo non sia un regalo alla Rivoluzione islamica?”
Sia chiaro, in questo lavoro, il viaggiatore che pure è un mancato ministro degli Esteri – Di Battista si è sottratto a qualunque prebenda politica – non indulge in complicità con il governo degli Ayatollah. Il dato, in punto di verità, è un altro: “Gli iraniani non confidano nella Guida Suprema, confidano ancora meno nell’Occidente”. Il suo viaggio è appunto un documento, più che un documentario. Sono giorni convulsi quelli del gennaio d’inizio anno. Per un errore ammesso dallo stesso governo iraniano è abbattuto un aereo ucraino, i pasdaran iraniani si lanciano all’attacco delle basi americane in Iraq, tutto fuorché sicuro è il posto che si è scelto Di Battista, ma quella megalopoli di nove milioni di abitanti, disordinata e massacrata da un traffico caotico e inestricabile che l’avvolge costantemente, custodisce un’anima cui rivolgersi per capire e sapere. È quella stessa che è riuscita a conservarsi indenne nel trascorrere di una grande, millenaria civiltà a dispetto di tutto ciò ch’è passato: il colonialismo altrui, le Guerre Mondiali degli altri, la stessa Rivoluzione Islamica che comunque convive con la pluralità di segni remoti eppure vivissimi. È pur sempre la terra di Zarathustra, il senso sacro dello zoroastrismo – e della paganitas – non è conculcato come per esempio in Occidente, ridotto al rango di folclore.
Di Battista attraversa l’Iran utilizzando i mezzi pubblici, passeggia per i quartieri delle città cercando di coglierne – col genius loci – lo stato d’animo: “La ristrettezza economica è direttamente proporzionale alla dignità.” Per capire meglio è necessario fare una breve parentesi storica, rivolgere lo sguardo al passato per decifrare gli umori del presente. Come spesso accade, per comprendere i grovigli che la storia annoda è necessario studiare il fenomeno economico, quello che il buon Marx aveva descritto come struttura della società. Qui la posta in gioco è altissima, e si chiama petrolio. Si tratta di immensi giacimenti di oro nero. Gli inglesi erano riusciti a ottenere la concessione per lo sfruttamento dei giacimenti dallo Shah Reza Pahlavi nel 1933, costituendo la Anglo-Iranian Oil Company. Nel 1951 Mohammad Mossadeq un politico nazionalista divenuto primo ministro – una sorta di Enrico Mattei, per intendersi – era riuscito a nazionalizzare i giacimenti creando la National Iranian Oil Company. Un colpo di Stato ordito dai servizi segreti inglesi con la collaborazione della Cia, lo depone.
Lo stesso schema è riproposto decenni dopo quando l’Iraq di Saddam Hussein, attacca Khorramshair, città portuale a 14 ore di treno da Teheran. Il centro cittadino sorge sul fiume Arvan, al confine tra Iraq ed Iran nel territorio della mezza luna fertile, il Kusestan, culla millenaria di popoli, dai Fenici in poi, luogo in cui per la prima volta nella storia, apparve la scrittura, cuore di grandi contrasti. Oggi infatti è possibile osservare i riti di una civiltà agricola condotta ancora con gli stessi secolari sistemi, vedere pascolare greggi di capre in mezzo ai pozzi di petrolio. Greggi, e greggio, in una sintesi impossibile. L’invasione dell’esercito iracheno, avallato ancora dalla Cia nel 1980, dà vita a una guerra lunga e devastante, mai dimenticata dal popolo iraniano nonostante una difficile pace. Il pretesto fu quello di impossessarsi dei territori abitati dagli arabo-iraniani, la posta in gioco, ancora una volta, il controllo dei pozzi petroliferi. Per avere un’idea, è in quella zona che si trova un pozzo da cui si estraggono 53 miliardi di barili, il quarto al mondo.
Questa guerra ha falciato un’intera generazione di ragazzi, ancora ricordati come i martiri caduti per difendere la città, che hanno nel locale cimitero la loro zona, lapidi con effigiati i volti dei caduti. Lo stato d’animo del popolo iraniano, oggi, dopo la morte di Soleimani, è di insofferenza verso le imposizioni e le limitazioni volute dalla guida suprema del Paese, l’ayatollah Ali Khamenei, massima autorità dello Stato. Vivo, comunque, è il patriottismo e la grande insofferenza per le ingerenze straniere che hanno confermato l’Iran nella black-list, di fatto vietando l’afflusso di turisti che è una delle grandi voci dell’economia. L’Iran si sgola: “A morte gli americani”, “a morte Trump”, “a morte Israele” ma gli slogan, riflette Di Battista, forse spiegano lo stato d’animo, di certo non aiutano a trovare una soluzione, né a porre fine al conflitto. Una marea di volti e di colori accompagna la vita quotidiana nei sentieri di Persia: il nero dei chador, i bambini con i loro vestiti colorati mischiati agli adulti, i kang – le giacche con le spalline a punta – il canto dei mullah, le ciotole fumanti di zuppa di lenticchie e cipolle fritte. Su tutto l’impotenza dei civili che vorrebbero solo vivere in pace, mentre la guerra fa comodo a troppi: ai trafficanti di eroina meno sorvegliati dagli eserciti, ai capi di Stato che usano i profughi come arma di ricatto, alle multinazionali del cemento per ricostruire sulle macerie. Porta dolore, la guerra. E menzogna. Nulla di tutto ciò che si racconta della Persia corrisponde alla realtà. Solo conoscere cancella la paura.
Certo detto da Di Battista che gli slogan non aiutano è una contraddizione, proprio lui che fa parte di un movimento che ha sempre parlato per slogan dal famoso “Vaffa” allo slogan “onestà, onestà”