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“La fine di una stagione” di Roberto Vivarelli e la memoria di chi si schierò con la Rsi

Il ricordo di un libro essenziale dello storico della Normale di Pisa, coraggioso nel rompere il conformismo accademico

by Andrea Scarano
26 Luglio 2020
in Cultura
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I simboli della Rsi

Ricordare la figura di Roberto Vivarelli nel sesto anniversario della scomparsa significa non solo rendere un doveroso tributo allo studioso, professore di Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa, autore di importanti saggi sul fascismo e membro dell’Istituto storico della resistenza, ma ripercorrere l’itinerario di un uomo che, pur avendo riconosciuto con onestà intellettuale e politica di essersi schierato “dalla parte sbagliata”, difese la dignità delle proprie scelte ed azioni.  

“La fine di una stagione”, edito da Il Mulino nel 2000, è l’analisi introspettiva di un passato – quello del biennio del 1943-45 – scomodo e sconosciuto ai più di un giovanissimo repubblichino, “figlio di un morto ammazzato”. Il trauma infantile della perdita del padre, fascista e volontario di guerra ucciso dai partigiani di Tito durante l’occupazione dell’ex Jugoslavia, ebbe forse un peso inferiore  nella decisione di aderire al complesso microcosmo della Repubblica sociale italiana rispetto all’educazione ricevuta al gruppo rionale da parte di un insegnante ed ufficiale della Milizia, che sarebbe poi diventato un antifascista dell’ultima ora. 

All’indomani dell’armistizio del 25 luglio 1943 una parte di chi non volle rimanere – come fece la maggior parte degli italiani – nella zona grigia della “massa indistinta di cittadini, moralmente amorfi, ma disposti per indole a schierarsi sempre con il più forte” o comunque in attesa dell’evoluzione degli eventi, dichiarò la propria fedeltà all’alleato tedesco per senso del dovere.

La consapevolezza che quella causa fosse moralmente e storicamente ingiusta fu per Vivarelli un’acquisizione successiva, così come quella relativa alla reale natura del regime nazista e dei suoi crimini, che maturò con la visione dei primi sconvolgenti documentari sui campi di concentramento. 

L’autore sottolinea, peraltro, che le circostanze all’interno delle quali ci si ritrova non di rado ad agire determinano spesso nei vinti l’esigenza di sottoporsi ad un approfondito esame di coscienza, al quale corrisponde di rado uguale atteggiamento da parte dei vincitori, esposti alle tentazioni di una superbia che può indurli a negare ogni umanità nei propri avversari.

Il disprezzo verso la Monarchia e Badoglio, responsabili sia di aver condotto l’esercito e la nazione allo sbando sia di tradimento, dopo che lo stato italiano era entrato in guerra volontariamente al fianco della Germania e, agli occhi dei vincitori, si sarebbe giustamente presentato ai negoziati di pace nella posizione di sconfitto, era un sentimento profondo che coagulava amarezza, delusione e indignazione, che raggiunse l’apice nel momento in cui la flotta si consegnò spontaneamente agli Alleati e sovrastò di gran lunga – almeno in una fase primordiale – l’ostilità nei confronti dei “ribelli”, come vennero inizialmente denominate le formazioni partigiane.

Il tentativo non riuscito di entrare nella Decima MAS, l’arruolamento fra i militi delle Brigate Nere di Pavolini, i duri giorni dei bombardamenti anglo-americani (“i veri nemici”) della primavera ’45 e la morte sfiorata il 25 aprile, seguita dalla vergogna – maturata a seguito della conoscenza dei fatti nelle settimane successive – per il contemporaneo passaggio del proprio reparto dalla parte dei partigiani, rappresentano la testimonianza di un convincimento che ha radici profonde, rintracciabili in valori di stampo ottocentesco: l’amore per la patria, l’onore, la fedeltà alla parola data e la disponibilità al sacrificio per i propri ideali, troppo spesso interpretata ponendo esclusivamente l’accento sulla centralità di un “frenetico amore” per la violenza e la temerarietà.

Il prezioso revisionismo storico

Nel più ampio contesto del dibattito innescato dal filone di studi riconducibili al revisionismo e dalle innovative interpretazioni del fascismo di Renzo de Felice, le riflessioni di Vivarelli rivestono particolare interesse non solo per il contributo apportato alla definizione del biennio in esame come “guerra civile”, intesa sia come lotta tra fazioni interne ad una stessa comunità che come conflitto tra valori ideologici contrapposti. Esse evidenziano, allo stesso tempo, che il clamore – sia coevo che postumo – riservato alla scelta dei ragazzi della Repubblica di Salò produsse l’effetto distorcente di relegare in secondo piano le responsabilità e gli errori addebitabili al regime prima del 1943, creando per il fascista una specie di “categoria antropologica” in grado di oscurare il fatto che la dittatura avesse riscosso il consenso della maggioranza degli italiani e di impedire che la nazione facesse fino in fondo i conti con il proprio passato, presupposto necessario di ogni effettivo superamento.

Tale anomalia inquinò lo stesso antifascismo, perché si ritrovarono a militare nella resistenza sia i pochi che avevano convintamente avversato il fascismo sin dal principio, sia i più che tentarono di cancellare all’ultimo momento le tracce di un passato ingombrante ed ormai compromesso confondendosi con i primi, in un clima avvelenato oltretutto dall’onda del furore popolare che travolse gli sconfitti con esecuzioni sommarie e spesso brutali, protraendosi ben oltre la fine delle ostilità. 

Nonostante le contraddizioni interne – tra le quali un’analisi carente del fascismo e di riflesso una sua immagine di maniera che contribuì al fallimento di un’effettiva epurazione, il fatto che essa coinvolse una minoranza di italiani in un territorio limitato e senza imporsi con la carica di una rivoluzione – Vivarelli riconosce alla resistenza di aver indicato alla nazione l’inizio di una strada nuova, basata sui principi della libertà e della democrazia, nella granitica convinzione che “la qualità di una causa e il giudizio storico che su di essa abbiamo il dovere di dare è tutt’altra cosa dalla qualità degli uomini che quella causa hanno onestamente servito”.

Andrea Scarano

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Tags: andrea scaranoBarbadillomulinoroberto vivarellirsisalò

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