Qualcuno, qualche giorno fa, parlava di figuracce internazionali commentando l’ennesima caduta delle istituzioni italiane con il caso Shabalayeva. Ma che dire della frenetica attività dell’ufficio distrazione di massa, attivo ventiquattro ore al giorno, intento a occupare politica, media, commentatori e opinione pubblica con notizie su fatti, per quanto antipatici, ma non essenziali – perché non c’è emergenza razzismo nel Paese quanto una comprovata diffusa ignoranza e irresponsabilità di certi esponenti – come l’uscita del leghista Calderoli?
Notizie futili e utili a riscaldare gli animi, per giorni e giorni, distogliendo l’attenzione dai problemi concreti, quelli che stanno tormentando in modi e forme varie i cittadini, come la grave crisi economica del Paese – con la piccola classe produttiva e imprenditoriale in ginocchio – e dal serio e diffuso deficit di fiducia degli italiani verso la politica e le istituzioni.
Così per trovare notizie come quella dell’imprenditore edile di Gela, costretto per ragioni di salute a interrompere uno sciopero della fame durato tre mesi e iniziato per protestare contro l’iniquità dello Stato, si deve guardare nelle pieghe più nascoste di alcuni mezzi di informazione. Il trentanovenne Emilio Missuto ha visto la sua azienda essere dichiarata fallita dal tribunale del comune nisseno e costretta a licenziare cinquanta dipendenti perché non è riuscito a pagare tasse e contributi per 37mila euro. Il motivo? Lo Stato è in ritardo con il pagamento del suo debito contratto con l’imprenditore Missuto, che vanta un credito di un milione di euro per lavori realizzati, fatturati e mai liquidati.
Se lo Stato siamo noi, verrebbe da pensare che lo Stato sia un organismo sadomasochista che si auto infligge sofferenze traendone un insano piacere. Ma fuori dalle battute, appare sempre più evidente e sconfortante che lo Stato non cessa di mostrarsi in tutta la sua arroganza attraverso un potere iniquo che chiede senza dare, pretende senza garantire. E poi ci si scandalizza e ci si interroga sul perché l’entità statale, soprattutto in certi luoghi dove i servizi non funzionano, o sono carenti, e dove il meccanismo è inceppato da connivenze o assenze rumorose, venga vista come nemico e non come un tutto di cui ciascun cittadino fa parte e da rispettare. Senza giustificare l’illegalità, l’evasione fiscale e i comportamenti antisociali, come si fa a pretendere il rispetto delle regole se il primo a non ottemperarle è l’organismo che ha il compito di farle rispettare? Come far rinvenire nei cittadini una fiducia che diventa sempre più flebile quando le istituzioni si mostrano forti con i deboli e deboli con i forti?
Viene da chiederselo anche riflettendo sulla recente sentenza della Cassazione che ha bocciato il ricorso di un imprenditore di Latina condannandolo a più di due mesi di reclusione per la fatturazione di operazioni inesistenti per un importo complessivo di 107,59 euro, che ha determinato la sottrazione al fisco di un introito Iva di 21,51 euro in una dichiarazione dei redditi del 2004. Poco importa se la pena è stata sospesa. Il punto è che si persegue con determinazione e pesantemente un’evasione irrisoria – per un importo così valeva la pena falsificare una fattura? – in un Paese in cui, soltanto nel 2011, l’Agenzia delle Entrate ha stimato un fenomeno vicino ai cinquanta miliardi di euro. Una cifra raggiunta solo a causa di imprenditori che sottraggono 21 euro al fisco?
I paradossi di una demagogica lotta all’evasione – talvolta affidata a operazioni spot – di istituzioni in crisi che ce la mettono tutta per non farsi rispettare e di una politica che si perde nei mille rivoli di piccole e comode querelle quotidiane.