Sono molto orgoglioso di aver avuto una parte nella stesura di un preziosissimo volumetto: Francesco Ingravalle, Per una primavera di bellezza. Due fioriture. Una infiorescenza, AR, Padova 2019. Quando invitai Francesco Ingravalle a tenere una conferenza per i miei studenti liceali su d’Annunzio e Nietzsche, lo feci da un lato perché conoscevo il valore di studioso del nostro Autore, dall’altro per una questione di pancia. A volte dalla pancia nascono le fioriture della ragione – tanto per restare nel tema del titolo e del sottotitolo, che tornerò a considerare. La pancia prende il sopravvento quando, per motivi estrinseci si è costretti a scontrarsi con una ridondante e ritornante produzione culturale, ormai trasformata in slogan, ormai cristallizzata in forme date che divengono per questo tanto più insopportabili quanto più s’ammantano di una verità quasi intoccabile. Una di queste era ed è la presunta superficialità di d’Annunzio lettore di Nietzsche, dentro l’eterno ritorno della presunta superficialità dell’estetismo dannunziano. Due macigni ideologici che, riconoscendo l’onore delle armi della maestria tecnico versificatoria, hanno inutilmente cercato di depotenziare l’enorme fascino della produzione del Vate pescarese, che seduce anche a misura della sua vita e, pericolosamente, della sua grande politica.
Ebbene, l’Autore, gentilmente assecondando quel mio personale sentimento di rivolta, gli ha offerto una quadro ermeneutico forte, intelligente, non privo di fascino, ma anche provocatorio, perché fuori dagli schemi ideologici facili e dalle facili contrapposizioni. Di qui sorge, nelle sue pagine – che nascono dal vissuto di un incontro con ragazzi attenti e, se non in grado di cogliere tutte le sfumature del suo intervento, perfettamente consci della sua profondità e serietà – la visione finalmente appagante del perfetto incastro tra Nietzsche e d’Annunzio. È l’idea assolutamente fuori moda dell’uomo superiore a fare da cerniera. L’idea di un’arte che consiste nella forma spirituale offerta al mondo dall’uomo-demiurgo, creatore di sé e perciò dominatore del mondo: Nietzsche e d’Annunzio e la forma come auto creazione, l’ordine come istanza di superamento di sé che necessariamente investe l’intera realtà. Con le parole di Giorgio Locchi, potremmo dire: sovrumanismo.
Ma d’Annunzio non è una rondine che (non) fa primavera. Si tratta di una vera e propria primavera di bellezza giunta al suo pieno sviluppo, se si pensa alla congerie da cui vengono, una volta passato l’inverno del conflitto mondiale, Fiume, Mosca, San Sepolcro. Aria fresca di rivoluzione dove convergono i semi di Marx e Nietzsche che, da maestri del sospetto, diventano maestri di invenzione tra le mani di Lenin, Mussolini, d’Annunzio. Forse sono le ceneri della civiltà cristiana sconfitta? O forse è una brace sovrumanista che ha resistito allo sfacelo della borghese cristianità stabilita, quella in cui era degenerata l’Europa di Novalis, nella routine dei contrapposti clericalismi di Kant e La Mettrie: religione nei limiti della pura ragione e ragione nella cecità di una pura religione della materia. Come che sia, ci si trova in una casa nuova, bella e spaziosa, finalmente a misura, finalmente degna di accoglierci – e noi degni di appartenervi – in questa rarefazione delle vette alle quali d’Annunzio conduce sotto la guida spirituale di Nietzsche. Anche e soprattutto laddove i due artisti, della poesia e della filosofia, si confrontano con la storia e la politica, cogliendo profeticamente l’era delle masse e il sorgere da essa di una nuova gerarchia. Un nuovo mondo dello spirito deve necessariamente prodursi se si sa ascoltare il bisogno di uomini differenti che origina dalla marea torbida dell’uguaglianza. Dalla democrazia la tirannia, diceva Platone, ma il tiranno non è più l’oppressore che in fondo condivide la bassezza degli oppressi, come sottolineava l’aristocratico Platone nella sua opera scritta, ma è l’amorale virtuoso che raccoglie le nascoste simpatie del fondatore dell’Accademia. Non il noioso maestro di morale, alla Socrate, ma il gioioso e arrogante Callicle, il veritiero Trasimaco, autentici progenitori spirituali del duca Valentino, dello stesso d’Annunzio e di Mussolini, italiani questi ultimi, cioè figli degli Elleni, per i quali canta il Barbaro enorme/che risollevò gli iddii sereni/ dell’Ellade su le vaste porte/ dell’Avvenire. Così recita lo stesso d’Annunzio, nel necrologio in versi che egli dedica a Nietzsche: Per la morte di un distruttore, prima che la storia e la politica gli offrissero l’occasione di far rivivere quella sublime barbarie sulle sponde dell’Adriatico. Ma, lungi dall’offrire lo spettacolo di quella nuda potenza che alcuni credono destinata necessariamente all’ingiustizia – pregiudizio liberale di quei borghesi che, mentre affamavano gli operai e i contadini, difendevano dagli scranni dei Comuni i “diritti dell’individuo” – la fantasia politica del poeta-tiranno seppe generare un nuovo socialismo che non era “dottrina e partito dei risentiti per invidia, di compassionevoli per dovere, di fanatici per fede […] ma teoria e movimento di buoni per sovrabbondanza, di scettici per amore dell’esperimento”, che cioè smise di essere “un fatto plebeo, per cominciare a diventare un grande fatto aristocratico”[1].
Non solo, però, il socialismo può essere aristocratico; quello che intuirono d’Annunzio e tutti coloro, non escluso Mussolini, che trassero la lezione etico-spirituale della Grande guerra, grazie alle lenti fornite dal filosofo di Röcken, fu che una nuova aristocrazia è possibile solo su basi autenticamente socialiste: “Lo spazio per una nuova gerarchia esclusivamente qualitativa è libero, quindi; liberato, si potrebbe dire, dalle impurità generate dalla proprietà dei mezzi di produzione e dalla signoria privata sul credito”. Il socialismo, dunque, non solo, come sappiamo da Nietzsche, è la massa che ha bisogno di un capo, cioè di un uomo superiore, dominatore di sé stesso, prima che del mondo, artista della forma, poeta della realtà, ma è, come sappiamo da Marx, la grande livella delle finte gerarchie, fondate sul ricatto del denaro e sulla schiavitù di un macchinismo mai completamente capito e pertanto mai dominato. Così la fioritura della speranza d’Europa, la repubblica dei combattenti e dei poeti guidata dal Comandante italiano, fu possibile dopo quella del martello filosofico nietzschiano. Due fioriture concimate dal puzzolente sterco dell’Ottocento, liberalismo, democrazia e socialismo, di cui si colsero in Marx le proprietà nutritive.
Ne nacque alla fine, non a mo’ di esperimento, ma per stabile volontà politica e per scommessa storica l’infiorescenza fascista. Qui i gusti floreali del nostro Autore e dell’Editore divergono, come fa notare la prefazione. Lo sguardo storicamente disilluso del primo vi vede “una formazione storico-sociale interna all’avventura del capitalismo monopolistico e della reazione degli agrari”, nella quale le masse hanno manifestato e ribadito la loro tendenza costante “a scegliere capi piuttosto pittoreschi ai quali delegano il governo, , aspirando non a governarsi ma a essere soddisfatte, appagate, placate”. Esse a ragione del fatto che “non hanno virtù intellettive”, ma “amano o odiano, come hanno rivelato Gustave Le Bon e Sigmund Freud”, danno la loro preferenza a “capi-popolo”, “demagoghi”, “manipolatori-manipolati”. Così il regime di un Mussolini, non più giovane duca Valentino di piazza San Sepolcro ma vecchio Rodolfo Valentino di piazza Venezia, prende le coloriture horror che sembrano dargli i pittori della Terza Internazionale.
A tale conclusione si deve arrivare per mezzo di una considerazione storica, non essenzialistica. Con le essenze si fa metafisica, siano esse quelle dell’ur-fascismo di Eco – culto della tradizione, rifiuto della modernità, ostilità alla diversità, elitismo, populismo qualitativo e neolingua totalitaria – o del fascismo spartano di Bardeche – senso dell’onore, coraggio, vigore, rispetto della parola data, pubblica responsabilità. Ingravalle preferisce alla metafisica, e alle discussioni infinite che nascono dalle sue antinomie, la storia di cui vi è scienza grazie all’intuizione sensibile dei fatti. Ma poi, siccome i fatti sono nulla senza interpretazioni, anch’egli ha bisogno un pizzico di quidditas sociologica e/o psicologica: il fascismo non è un’essenza etica, ma una sequenza di fatti che esprime alcune costanti dell’interazione sociale e della vita emotiva delle collettività. Quindi egli discute dell’ur-fascismo di Eco, comparandolo genialmente con Bardeche, con cui il primo ha una parentela di forma ma non di contenuto: due fascismi, due essenze, da una stessa propensione interpretativa “platonica”. Poi vi oppone la sua prospettiva come si opporrebbero i concetti dell’intelletto pieni di vita concreta alle vuote idee di ragione. Ma anche quest’ultime manifestano un forte valenza conoscitiva. Verso quale orizzonte spingere l’interpretazione storica: ogni storico, anche il più empirista come De Felice ha le sue idee di ragione, cioè i suoi orizzonti essenziali, la sua metafisica necessaria. In essa rientrano mille opzioni, mille determinazioni, mille storie, mille vissuti, che differenziano le vie di ricerca. Nella mia personale vi è l’individuazione delle radici sansepolcriste lungo tutta l’esperienza fascista, dove il regime non è mai riuscito a soffocare il movimento e il movimento, attingendo costantemente alle fecondità dionisiaca della vita, mai ha rinunciato a imprimere la sua direzione al regime. Ciò non è indifferente. Ci sono le fioriture prima dell’infiorescenza. Ci sono Nietzsche a d’Annunzio nell’humus fecondo dove affondano le radici fasciste. L’ur-fascismo di Eco vorrebbe essere il diserbante intellettuale di quelle radici. Una sorta di glifosato storiografico prodotto dalla multinazionale democratica dei salotti chic che tuttavia rimane alla superficie, intossicando solo quei due centimetri di terreno accessibili alla propaganda e ai circoli mediatici. Ma la profondità è altra cosa. Dove arrivano le radici lì dovrebbe arrivare l’interpretazione. Dove non gelano le radici, parimenti non gela la scienza.
Ciò mi mette forse sulla medesima lunghezza d’onda dell’Editore, in divergente accordo con lui, data qualche opzione fondamentale che ci separa, e in convergente disaccordo con l’Autore, data la preziosa raffinatezza di un testo d’occasione che, per come è stato concepito, rappresenta, mediante un coacervo di pensieri, dottrine, immagini, storie, opere e giorni, un piccolo universo etico politico. Qui interagiscono le idee di ragione di ciascuno: la sua anima, il suo Dio, il suo mondo, ma tutte stanno dentro una ben rotonda sfera, quella del primato assoluto dello spirito, dove c’è spazio per i contrasti e per la nobile armonia che da essi si dischiude.
[1] G. Pasqualotto, relazione al convegno Nietzsche e la cultura contemporaneadell’Istituto Gramsci Veneto (giugno 1981), in G. Accame, Nota sull’Evola moderno, in R. Melchionda, Il volto di Dioniso. Filosofia e arte in Julius Evola, Basaia, Roma 1984, p. 13.