Non ho intenzione di parlare della conversione all’Islam di Silvia Romano, in parte perché mi sembra ingeneroso commentare una scelta che potrebbe essere una non scelta, in quanto obbligata da pressioni psicologiche se non fisiche, in parte perché di questo argomento si è detto già molto e non sempre in maniera appropriata. Il dibattito di questi giorni mi induce tuttavia a pormi interrogativi di natura più ampia, che riguarda non tanto le motivazioni culturali alla base di molte conversioni alla fede musulmana, quanto il clima morale in cui esse maturano.
C’è stato nella prima metà del Novecento un periodo di grandi conversioni al cattolicesimo, dall’anglicanesimo, dall’agnosticismo e in certi casi dall’ateismo militante: Joergensen, Chesterton, Papini, Giuliotti, Léon Bloy, Alexis Carrel, sono soltanto alcuni fra i nomi più noti. Di Papini si racconta che al posto del carbone per diversi giorni furono utilizzate come combustibile per le stufe di casa sua le copie del suo blasfemo pamphlet Le memorie d’Iddio, di cui aveva recuperato le rimanenze nei magazzini dell’editore Vallecchi.
Numerosi anche i casi di conversioni dall’ebraismo, non sempre dettati solo da motivi di opportunità: basti pensare al rabbino capo di Roma, Israel Zolli, che dopo l’ultima guerra si convertì al cattolicesimo scegliendo come nuovo nome Eugenio, in onore del Pontefice che aveva contribuito al salvataggio di centinaia di migliaia di suoi ex correligionari.
Come ci si converte?
Cosa indusse a tale scelta la maggior parte di questi grandi convertiti? Non è facile dare una spiegazione razionale e univoca di una decisione che ha sempre dietro di sé una componente mistica. In certi casi, per esempio sulla scelta del grande clinico Alexis Carrel, può avere esercitato un’influenza determinante l’esperienza di alcune guarigioni miracolose a Lourdes, che la scienza non bastava a spiegare. Ma non vi sono dubbi che in buona parte dei casi abbia pesato il fascino della salda ossatura gerarchica e dottrinaria della Chiesa cattolica, percepita come una risposta organica alla crisi spirituale dell’uomo moderno e anche come l’erede dei valori più alti della civiltà e della cultura occidentale. Un fine intellettuale come Giuseppe Prezzolini, che non si convertì mai, anche a costo di deludere le aspettative di Paolo VI che lo considerava un maestro, confessava di aver tentato in un frangente della sua vita di divenire cattolico, senza però sentirsi cristiano. Per questo si era sposato in chiesa con la prima moglie, Dolores. Non fu un matrimonio fortunato, e non gli portò la fede; ma questo è un altro discorso.
Quello di Prezzolini era un paradosso solo apparente, come il gioco di parole di Pierre Drieu La Rochelle, che dichiarava di sentirsi cattolico in tutto quello che il cattolicesimo ha di pagano e pagano in tutto quello che il paganesimo ha di cattolico. In altri casi invece sulla riscoperta di Dio nei primi decenni del Novecento influì una reazione all’aridità razionalistica del positivismo, che accomunò un’intera generazione, e che si manifestò per altro in forme molto diverse, basti pensare alla diffusione dell’occultismo, alla pratica, non sempre innocua, delle sedute spiritiche, all’interesse per le religioni e le culture orientali, alla ricerca dei “grandi iniziati”, al dilagare di interessi esoterici.
Il cortocircuito del Concilio Vaticano II e il carisma di Wojtyla
La stagione delle grandi conversioni, che aveva conosciuto il culmine nei primi decenni del secolo, è terminata negli anni ’60, in coincidenza con gli sviluppi del Concilio Vaticano II e soprattutto del post-concilio. Paradossalmente quel cattolicesimo che abbandonava l’antico rigore dogmatico e disciplinare non conquistava nuovi adepti, anzi vedeva diminuire la pratica religiosa fra gli stessi credenti. Le grandi (e brutte) chiese costruite negli anni ’50, in piena “ricristianizzazione” della società italiana, si trovarono presto con i banchi semivuoti. Una Chiesa che invece di dogmi proponeva dubbi, che abbandonava la disciplina della sintassi latina per il bla bla di tutte le lingue, non parlava al cuore delle nuove generazioni, assetate di rigore e di assoluto, perché, come dicono i francesi, il ne faut de maître pour douter. La Chiesa che si sarebbe dovuta aprire al mondo finì, secondo la celebre espressione di Maritain, per inginocchiarsi dinanzi a una modernità che le era sempre più estranea od ostile.
Gli anni ’80, anche per la presenza di un pontefice dall’indubbio carisma come Karol Wojtyla, segnarono un’inversione di tendenza. Fu l’epoca della “rivincita di Dio” – per usare il titolo di un fortunato saggio di Gilles Kepel – accolta con favore dall’Occidente laico in funzione anticomunista: sia il “Papa venuto dall’Est”, sia i mujaheddin, non ancora percepiti come talebani, servivano a logorare l’impero sovietico. Più che di clamorose conversioni si può parlare nel mondo cattolico di una riscoperta del sacro nel mondo giovanile, che fu anche una reazione alle aberrazioni del sessantottarde. Fu il tempo dei “papaboys”, dei grandi Meeting di Rimini, dei ragazzi di Comunione e Liberazione che sollecitavano e quasi imponevano alle librerie di non nascondere negli scantinati romanzi coraggiosi come Il cavallo rosso di Eugenio Corti. Al tempo stesso però le aperture ecumeniche al dialogo interreligioso, se allontanarono i tradizionalisti legati a monsignor Lefebvre, non incoraggiarono la ricerca di nuove conversioni.
Gli atei devoti e la “rivincita” di Dio
Certo, dopo l’attentato delle Torri Gemelle, venne il tempo degli “atei devoti” alla Oriana Fallaci o alla Marcello Pera, fenomeno attinente però più alla sfera etico-politica che a quella religiosa in senso stretto. Ma in realtà, nonostante i suoi indubbi successi, Giovanni Paolo II fu un papa più amato a Varsavia che in Vaticano, più ammirato dall’opinione pubblica mondiale che obbedito all’interno della Chiesa. Certo, riuscì a contenere, ma non a estirpare (ce ne accorgiamo oggi), le eresie della teologia della liberazione, che fanno di Cristo un precursore di Che Guevara, e a lasciare un concistoro in grado di eleggere il teologo che aveva tenuto la barra dritta durante il suo pontificato. Poi, le cose sono andate come sono andate e sotto l’attuale pontefice non si può certo parlare di un rilancio delle conversioni, anzi, semmai, della sofferenza interiore nobilmente rattenuta di uno degli ultimi grandi convertiti, come Vittorio Messori.
La rivincita di Dio nel mondo musulmano ha assunto caratteristiche diverse. Sotto un certo profilo si può parlare negli ultimi decenni di una reislamizzazione delle giovani generazioni, un fenomeno che assume sotto un certo profilo caratteristiche più ideologiche e sociologiche che etico-religiose. È difficile capire se le ragazze che ostentano il velo o peggio lo chador nelle banlieus, mentre le loro madri si facevano un punto d’onore di recarsi a scuola o sul luogo di lavoro in minigonna e truccate come europee, compiano una scelta fideistica, lancino un segnale politico o subiscano le pressioni dell’ambiente circostante. Ma anche dietro il fanatismo di molti terroristi islamici è difficile capire se prevalga la componente fideistica o il disagio sociale. Studiando le biografie di molti cosiddetti kamikaze mi sono accorto che nel loro pregresso ci sono vite devastate dalla droga, dall’alcol – con buona pace dei precetti coranici, – esperienze sessuali disgregate: tutto il contrario del credente senza macchia che si sacrifica per una fede. La morte per Allah per molti di loro potrebbe aver rappresentato un suicidio mascherato da idealità religiose, la copertura di un fallimento esistenziale.
Li ho sempre considerati troppo stupidi per capire che la società occidentale porgeva loro opportunità estremamente superiori a quelle fornite dai paesi di provenienza (alcuni di loro avevano potuto frequentare l’università, grazie ad “azioni positive” e riserve di posti), ma non abbastanza babbei per credere che dopo la morte in un infame attentato li aspettassero giardini ricchi di fontane, datteri e vergini eterne. Questo naturalmente non vuol dire che non vi siano musulmani e musulmane devoti; ma non credo siano quelli fanatizzati dalla propaganda fondamentalista, dietro la quale si nasconde un ateismo pratico con molte analogie col cristianesimo dei seguaci della teologia della liberazione.
L’Occidente che ritorna all’Islam
L’aspetto più interessante e inquietante del problema è tuttavia un altro, ed è rappresentato dalla frequenza delle conversioni di occidentali alla fede islamica, solo in minima parte compensato dal fenomeno inverso, con la conversione al cattolicesimo di Magdi Allam, condannato per la sua scelta di fede a una vita sotto scorta (altro che insulti via web a Silvia Romano!). Secondo stime prudenti (nel nostro Paese l’anagrafe non registra la religione, e di conseguenza mancano dati certi), in Italia sono almeno cinquantamila i battezzati “apostati”, e si tratta di apostasie che non sono state compiute sotto pressioni psicologiche, ma in piena libertà. L’impressione è che ci si trovi, ma solo di rado, di fronte a conversioni maturate nel corso di seri studi di carattere teologico, ma prevalgano le decisioni indotte da un mix di moventi più sottili e a volte contraddittori: l’impazienza per un cattolicesimo sempre più secolarizzato, il desiderio di sposarsi con un coniuge di religione islamica (omnia vincit amor), il fascino dell’esotico, la ricerca di un “supplemento d’anima” che la cultura razionalista dell’Occidente non sembra in grado di fornire e più in generale quel rifiuto della tradizione e dei valori dell’Occidente che il grande Sir Roger Scruton Vernon ha definito oicofobia. Interessante è anche il fatto che molti nuovi islamici provengano da militanze di estrema destra o di estrema sinistra. È come se quanti sono usciti da movimenti inclini a coniugare privato e politico avvertissero più forte l’esigenza di una religione anch’essa totalizzante.
Un fenomeno al femminile
Un aspetto interessante del fenomeno è costituito dal fatto che il maggior numero di convertite sia di sesso femminile. Un dato che può stupire, visto il ruolo assegnato dal Corano alla donna, che sarebbe eufemistico definire subalterno. Si può ben obiettare che anche San Paolo riteneva la donna inferiore all’uomo e che la Chiesa cattolica non ammette il sacerdozio femminile; ma il Cristianesimo non prevede la poliginia e comunque il taceant mulieres in Ecclesia è stato superato da tempo. A rigore dovrebbero essere di più i maschi a convertirsi, se non altro, come quel personaggio di un romanzo di Houellebecq, perché alleccuriti dalla possibilità di avere più mogli sottomesse o devote, magari una quarantenne per la cucina e una o più sedicenni per l’alcova, e invece il maggior numero di conversioni si registra fra le donne. È vero che in molti paesi islamici, come l’Egitto, la pratica della poliginia è desueta e che in certi casi si sta assistendo a una laicizzazione della società araba. Ma chi si converte a una religione per un sincero travaglio di solito è più rigorista nell’applicazione dei suoi principi di quanti si sono limitati a subirla, e comunque in molte banlieues la condizione femminile non è molto diversa da quella della donna siciliana raffigurata, sia pur con qualche caricaturale esasperazione, in pellicole come Sedotta e abbandonata.
E qui, oltre alle motivazioni già ipotizzate per tutti i convertiti si potrebbe aggiungere un altro elemento: la grande contraddizione della donna nel mondo occidentale, divisa fra stimoli culturali che l’inducono a ricercare in competizione con l’uomo un’autoaffermazione nella vita professionale e familiare, e fattori culturali che, in forma più o meno conscia, la spingono a desiderare la dominazione.
Il fascino del cambiamento
La profezia dello psicanalista Cesare Musatti secondo cui a furia di non volere un uomo prepotente, le donne rischiano di avere a che fare con un impotente, risale agli anni ’70, ma si è da tempo avverata, sia pure latu sensu. Non si tratta, almeno si spera, di una vera impotentia coeundi da Sacra Rota, ma di una soggezione psicologica, che da un lato lusinga il super-io di molte donne in carriera e non, dall’altro le lascia intimamente inappagate. Di qui può nascere da un lato la ricerca di rapporti, magari occasionali, con musulmani non ancora condizionati dal femminismo, dall’altro quella completa accettazione non solo di una teologia, ma di un’intera cultura, che coincide con la conversione.
Non tutte le neoconvertite hanno letto Harem, il romanzo di Vittoria Alliata che è anche una singolare apologia di questa istituzione, presentata come un luogo di protezione più che di reclusione della donna, né sarebbero entusiaste di condividere il marito con altre spose; ma certo, a parte rari casi, accettano, specie in caso di matrimonio, di instaurare un rapporto poco egalitario con il consorte.
È onesto aggiungere che sulla più alta percentuale femminile fra i convertiti possono influire anche altri fattori. Sensibilità e pratica religiosa sono più diffuse fra le donne che fra gli uomini; è naturale di conseguenza che siano più inclini di loro a interessarsi a un cambiamento di fede. E, in generale, la donna oggi è più incline dell’uomo al cambiamento, più ricca di curiosità, più incline a mettere in discussione quanto acquisito. Basta pensare al fatto che in Italia a richiedere la separazione sono al 70 per cento le mogli. Non è detto però che i cambiamenti decisi si rivelino felici. Lasciare una fede come quella musulmana può risultare un po’ meno facile che mollare un marito. E non dà diritto agli alimenti.
Il rapporto egualitario io lo desidero, ovviamente, per mia figlia! Anche se la sua generazione tende semmai a prevalicare…Non era così nell’occidente cattolico ai tempi delle mie nonne, forse neppure dei miei genitori o dei miei….Certo una conversione dovrebbe andare assai al di là dei mutevoli rapporti tra i sessi… Ripeto, io sono agnostico, ma non capisco perchè un credente senta il bisogno di convertirsi oggi. Le religioni sono prodotti della cultura e della storia. Una fede forse di impulsi che io non ho mai avvertito…Ognuno può essere, comunque, una degna persona e ‘timorata di Dio’ nella sua religione di origine. Io di un Magdi Allam, come cattolico praticante, non saprei che farmene…
Le donne si convertono più degli uomini perchè hanno un rapporto ‘sensuale’ con lo spirito, senza voler offendere nessuno. Per lo stesso motivo ci sono più mistiche che mistici. La donna è pura carnalità biologicamente – più dell’uomo, essendo fattrice di nuove vite – e per questo aspira a sublimarsi… Per questo le donne vanno più degli uomini da medium, cartomanti, veggenti, mistici indiani o pseudo tali ecc. e per questo la loro devozione è più profonda, netta, talora fanatica. La donna ha più bisogno di ‘credere’ dell’uomo, penso…
@Tullio Zolia: Anch’io ammetto di non conoscere il significato preciso di questo termine, ma l’ho sentito(letto non ricordo più dove) usare sempre in una determinata accezione in riferimento ad una stimolazione di tipo sensuale, e ne ho ricavato che significhi più o meno eccitati, inebriati, galvanizzati ,allettati, stimolati(eroticamente) etc… Sicuramente il buon Nistri potrà fornirci una spiegazione più precisa visto che in effetti è un termine che raramente viene usato e che non compare nemmeno nel vocabolario Treccani che ho provato a consultare.
P.S. Penso che sia un termine un po desueto usato prevalentemente in toscana…
@Tullio Zolia: Nel frattempo ho fatto qualche ricerca in più in internet perchè anch’io amo le espressioni tipiche delle nostre lingue italiche, ho trovato pochissimo, ma pare che sia una parola del vernacolo lucchese, dall’analisi dell’etimologia pare provenire dal vocabolo “alleccornire”. Secondo Giovanni Nencioni, linguista e presidente dell’Accademia della Crusca dal 1972 al 2000, il vocabolo si ritrova in Pietro Fanfani,rappresentante del purismo linguistico toscano dell’800 in una sua traduzione di un libello repubblicano francese, e si trova nel suo Vocabolario della lingua italiana (1865), come verbo alleccorire “far risvegliare l’appetito della gola”, col rinvio al successivo alleccornire, con lo stesso significato e con quello metaforico di “allettare”. Nel Vocabolario dell’uso toscano dello stesso autore che registra alleccorire rinviando alla propria fonte: il manoscritto Vocabolario lucchese di Bianchini. E il Vocabolario lucchese di Idelfonso Nieri (1902), che ha tra le sue
fonti il Giannini, registra alleccurire “alleccornire, adescare con léccori”; e léccoro è definito “Lecco, Leccume, Attrattiva”. I nostri due maggiori dizionari della lingua italiana, ricchi di esempi d’autore, il Tommaseo-Bellini e quello fondato da Salvatore Battaglia e che va sotto il suo nome, non registrano alleccorire, ma alleccurire “risvegliare l’appetito della gola” e,
metaforicamente, “allettare”, voce che il Tommaseo-Bellini dà come già trecentesca ma ormai morta e che fa derivare da leccornia. Il Battaglia registra anche allecconire, usato dal moderno scrittore Enrico Pèa, nato nella provincia lucchese, quindi parola tuttora viva e di ambito locale coi significati di “allettare, attrarre”. Tutte queste forme risalgono
evidentemente a leccare, che ha molti derivati, quali leccone “ghiotto”, leccume “cosa appetitosa”, leccornia e lecco dello stesso significato, registrati già nel Tommaseo-Bellini.
L’alleccorire usato dal Fanfani sembra dunque una variante di area lucchese che lui usò per insaporire il testo della sua traduzione del “Contr’un” di Étienne de La Boétie… Nell’uso comune viene usato anche como modo di dire in vece di “lusingare”, “cercar di sedurre”, “offrire leccornie” , “stimolare l’appetito”,”far venire una voglia”, ed è secondo tutte le fonti un verbo di origine lucchese. Cari saluti Tullio, questi toscani sono terribili! però abbiamo scoperto un interessante vocabolo grazie a Nistri.