Libero virus in libera chiesa (o in libera moschea)?
Incontro un serio imbarazzo a esprimere un giudizio sul divieto da parte del governo di celebrare funzioni religiose in presenza dei fedeli. Da un lato, vista la gravità della situazione non riesco a condannare un provvedimento che se da un lato viola una libertà garantita dalla Costituzione e dai Patti Lateranensi, incardinati anch’essi nella Carta, dall’altro può prevenire il rischio del contagio, soprattutto fra quanti fra i fedeli si comunicano. Sia che l’ostia venga conferita nelle mani, secondo l’uso prevalente, sia che venga deposta sulla lingua, secondo l’antico costume, il pericolo è evidente, tanto più che per una prassi difficilmente ribaltabile la Comunione avviene dopo la colletta, durante la quale i fedeli toccano il denaro, che oltre a essere “lo sterco di Satana” è un ottimo veicolo di virus. Questo atteggiamento, per quanto ai confini del “giuseppinismo”, trova una sua giustificazione anche alla luce del fatto che, una volta consentita la partecipazione del popolo alle messe, sarebbe gioco forza, in base ai principi costituzionali, estendere il diritto di partecipare alle funzioni religiose anche ai fedeli di altre religioni. Con tutto il rispetto per molti iman, che esercitano più che dignitosamente le loro funzioni, il controllo sociale sulle moschee o sui “centri culturali” musulmani non sarebbe facile anche perché il mondo islamico non ha una struttura gerarchica come la Chiesa cattolica; il rischio di sovraffollamento in spazi spesso angusti non sarebbe dunque da sottovalutare. Parafrasando il celebre detto attribuito a Cavour, va bene la libera Chiesa in libero Stato, ma non il libero virus in libera chiesa, o in libera moschea.
Detto questo, il modo con cui il divieto è stato da un lato applicato, dall’altro accettato, suscita in me, e non solo in me, umile peccatore, alcune perplessità. Intanto, proprio in forza dei Patti Lateranensi, sottoscritti “in nome della Santissima Trinità” dal cardinal Gasparri e dal cavalier Benito Mussolini, e poi riveduti e corretti dal cardinal Casaroli e da Bettino Craxi (la firma dell’accordo non portò fortuna né all’uno né all’altro dei sottoscrittori laici, ma questo è un altro discorso…) non è lo Stato a “concedere” alla Chiesa di celebrare le sue funzioni, in presenza del popolo o meno; si tratta piuttosto di un diritto soggettivo cui la Chiesa stessa può temporaneamente rinunciare, a mio giudizio saggiamente, ma per propria libera scelta o comunque previa intesa col Governo. Non avere affermato sin dall’inizio questo sacrosanto principio ha rappresentato un errore, in quanto ha stabilito un precedente pericoloso. In più nel corso della fase 1 si sono verificati episodi molto gravi, di funzioni religiose alla presenza di fedeli interrotte dalla forza pubblica, che ha sanzionato i presenti. In questo caso è stato inferto, con la turbatio sacro rum, un vulnus al Concordato che le gerarchie religiose avrebbero dovuto denunciare adeguatamente.
Suona di conseguenza patetica la reazione della Cei, quasi da “innamorato tradito”, come ha scritto qualcuno, al mancato inserimento della pubblicità delle messe all’interno della fase 2. La Conferenza episcopale italiana si è dovuta accorgere a un tratto che la sua collateralità a volte sfacciata nei confronti del governo Conte e del Pd, gli attacchi di molti vescovi e sacerdoti a Salvini e ai “sovranisti”, hanno ottenuto una ben modesta remunerazione. E solo allora ha emanato un comunicato di protesta, per altro di fatto smentito dalle parole del Pontefice, che ha invitato i fedeli alla “prudenza” e allo “spirito di obbedienza”, per evitare la recrudescenza della pandemia. Ora si apre la prospettiva di celebrare messe in presenza di fedeli, all’aperto dall’11 maggio e, salvo imprevisti, anche all’interno delle chiese, a partire dal 25 maggio. Sempre che i contagi non tornino ad aumentare.
In definitiva, credo che, come a volte può capitare, la Chiesa sia arrivata alla scelta giusta – quella della prudenza, perché non si deve tentare Dio, – ma nel modo sbagliato, ovvero creando un precedente molto pericoloso. Ma questo penso sia la conseguenza di due fattori.
Il primo è una realistica presa di coscienza da parte delle gerarchie ecclesiastiche del fatto che la Chiesa cattolica è ormai minoritaria in una nazione sempre più secolarizzata. Il fenomeno non è una novità, ma durante il pontificato di papa Francesco si è accentuato, col calo lento ma inesorabile dell’8 per mille e il “sorpasso” dei matrimoni laici su quelli religiosi (anche se su quest’ultimo ha influito l’impossibilità per i divorziati di contrarre nuove nozze in chiesa). Ha contribuito a questa tendenza la svolta politica impressa dal nuovo pontefice e dai suoi più stretti collaboratori, che ha disamorato quanti vedevano nel cattolicesimo un fondamento dell’identità europea minacciata dalla penetrazione islamica, senza indurre alla conversione i musulmani, gli atei o gli agnostici alla Scalfari o i militanti dei centri sociali. È evidente che una Chiesa sempre più minoritaria non può rivendicare le proprie garanzie concordatarie come al tempo in cui la Tv di Stato il Venerdì Santo non trasmetteva Carosello, perché i bambini, cui piaceva quella trasmissione, facessero penitenza.
Sull’atteggiamento della Santa Sede può aver pesato tuttavia anche un altro fattore: la corrente di pensiero di una certa sinistra cattolica che considera i Patti Lateranensi un tragico errore e non un evento provvidenziale e che esprime da tempo il suo rifiuto di una Chiesa “costantiniana”, ovvero tutelata dallo Stato. Rimane il rischio che, rifiutato Costantino, per il cattolicesimo italiano si avvicini l’era di Diocleziano. In Cina è già arrivata da un pezzo e le ultime intese con la Santa Sede non hanno certo migliorato la situazione.
Le chiese sono luoghi a forte concentrazione di gente, e in periodo di Coronavirus sono certamente rischiosi per il contagio, per cui da un lato é giusto imporre il divieto di svolgere le funzioni religiose, ma dall’altro é stato sbagliato aver preso la decisione unilateralmente, e non, di concerto con le autorità ecclesiastiche. Mi auguro però che un divieto del genere valga pure per le discoteche. Tra le cause del calo delle donazioni alla Chiesa cattolica dell’8 x mille c’è anche e soprattutto l’eresia bergogliana, che non può riscontrare il favore di chi è cattolico. L’Argentino é molto stimato dal radicale Scalfari, ricordiamolo. Quanto alla diminuzione dei matrimoni religiosi in favore di quelli laici, non credo affatto che abbia influito la mancata apertura sul matrimonio in chiesa per i divorziati. É assolutamente normale, perché il divorzio é anticattolico, in quanto per la dottrina cattolica il matrimonio é indissolubile, indipendentemente se é riuscito o fallito. Quella di preferire il matrimonio con rito civile a quello religioso é una tendenza in atto da mezzo secolo, da dopo il CVII, ed é inevitabile che in Italia avrebbe superato nel numero di celebrazioni, quello religioso. Al Nord da anni circa l’80% dei matrimoni è a rito civile. Quando fu introdotto il divorzio nel 1970, ci fu chi proponeva di limitarlo ai soli matrimoni civili, ma il Vaticano ormai falsato dal CVII chiese alla DC di non farlo perché avrebbe potuto comportare la diminuzione dei matrimoni religiosi. Ma come si é visto, questo impedimento non é servito a nulla.
Diciamo anche che per i tiepidamente osservanti fare mesi di asfissianti corsi di preparazione, come credo imposto oggi quasi dappertutto, è una tortura insopportabile. Una volta il prete ti sposava o battezzava i tuoi figli senza fare tante storie…Io stesso non feci illo tempore alcun corso, anche perchè forse di teologia ne sapevo più io del prete! Credere sul serio è poi un altra cosa…neanche la maggioranza dei preti ci crede….Mia figlia, dopo aver inutilmente contattato un paio di preti, ha contrattato un attore per … le fotografie!