In una giornata nella quale c’è chi vuole riaccendere odi atavici e fratricidi, ricordiamo che c’è stato – in Italia – anche chi ha operato per pacificare e ricucire le ferite della guerra 1943-45. Tra questi lo scrittore Cesare Pavese nel romanzo “La casa in collina”. Qui emerge l’autentica pietas italiana, antidoto, farmaco contro i signori delle divisioni, seduti alla guida delle casematte culturali o comodamente seduti sulle verandine con vista parco di una città americana. Per noi l’unità nazionale non si costruisce su memorie divisive, ma sul riconoscimento delle ragioni di tutte le parti che hanno formato la comunità italiana. ***
L’immagine di Cesare Pavese
«Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione».
(Cesare Pavese, La casa in collina)
Che bello, ma non sono convinta sul fine di questo articolo: tutti uniti fraternamente sotto la dittatura? Beh, comodo direi…In tal caso rispolveriamo anche Pavese! Niente, vi blocco. Me lo sentivo, ma ho provato lo stesso a leggervi x darvi una possibilità. 1 sbaglio!