La pandemia sembra, almeno apparentemente, incontrare desideri reconditi delle aree più reazionarie della società italiana: il coronavirus impedirà per ancora molti mesi le aggregazioni di persone e quindi anche gli assembramenti comunitari nelle curve.
Più della tessera del tifoso e dei tanti provvedimenti restrittivi, sarà l’emergenza sanitaria a ridurre il perimetro d’azione delle curve. Con questo congelamento, fino a che arriverà un vaccino o la pandemia sarà un lontano ricordo, non ci sarà il fuoco del tifo negli stadi. Nessuno striscione con cori, fumogeni (quando si possono accendere, ormai?), incitamenti durante tutti i novanta. Sarà ibernizzato il cuore e la passione dei tifosi, e soprattutto delle curve, dove il contatto interclassista, fondato sulla passione comunitaria per i vessilli identitari del club, crea una originalissima sensazione di partecipazione e protagonismo per tutti i 90’ della partita.
Il mondo ultras dovrà affrontare con responsabilità questa fase nella quale le liturgie delle curve sono sostanzialmente rischiose per il virus: come andare in trasferta in bus o in treno se c’è una alta probabilità di contagio? Allora la presenza “politica” delle curve. Come? Con striscioni nelle città o con campagne social. Del resto in queste settimane molti gruppi ultras hanno brillato per iniziative solidaristiche verso i medici negli ospedali. Ora dovranno interloquire con le istituzioni calcistiche e le società su temi come sicurezza, distanze negli stadi, calendari e ridefinizione dei rapporti tra calciatori e club (i super pagati giusto che si riducano lo stipendio senza fare troppe storie). Insomma ci sarà una nuova stagione di impegno per curve e gruppi. La nostra speranza è che duri il meno possibile e si possa presto tornare a vivere comunitariamente le partite della propria squadra sulle gradinate, come sempre senza paura.