“Tempo di scrivere” è il diario digitale di Enrico Nistri, scrittore, saggista e giornalista che ha attraversato il novecento e il primo ventennio del nuovo millennio osservando il mondo tra patriottismo, buone letture, vini di pregio italiani e un sano spirito irriverente in linea con la sua terra, la Toscana. Buona lettura ***
I cani di paglia
Le previsioni avevano promesso un peggioramento del tempo in questi giorni, e invece il cielo è ancora terso. Un burbero vento di tramontana ha spazzato le nuvole: ora non fa più nemmeno freddo.
Confesso che mi dispiace. Sì, è vero, è una pretesa egocentrica ed estetizzante pretendere che il clima sia intonato al tuo stato d’animo, come una cravatta alla camicia. Che piova quando una storia d’amore è andata storta, quando abbiamo perduto una persona cara, o magari temiamo di perderla.
Eppure vorrei lo stesso che dopo tanti giorni piovesse, una triste e fitta pioggia novembrina, e non solo per ripulire le strade dallo spolvero del virus o per allontanare la tentazione di evadere dalla quarantena. Invece sulle miserie e sulle tragedie dell’Italia in questi giorni splende un ironico sole, a ricordarci che le cose più grandi e quelle più piccole, il cielo come i virus, se ne infischiano delle nostre paturnie, e che, come diceva Lao-Tzu nel Tao te ching, siamo e rimarremo sempre cani di paglia nelle mani degli dei.
L’ultimo métro
Sono passati più di venti giorni da quando il primo ministro Conte, nel suo abito azzimato da avvocato di provincia chiamato a patrocinare in Cassazione, annunciò in diretta televisiva il decreto legge che trasformava tutta l’Italia in zona rossa. Nonostante la straordinarietà del provvedimento, gli italiani mi sembra abbiano reagito in maniera composta. Un fine pensatore politico, credo Machiavelli, osservava che gli uomini tendono a protestare rumorosamente dinanzi a modeste contrarietà, ma dinanzi a grandi mali sono più inclini alla rassegnazione. A favorire l’accettazione dei decreti Conte non escludo abbia contribuito il fatto che a emanarli sia stato un governo di sinistra, più adatto di uno di destra a imporre restrizioni e sacrifici. Non oso immaginare quali sarebbero state le reazioni se a bloccare l’Italia fosse stato un governo con Salvini come ministro dell’Interno. I “pieni poteri” a Conte fanno meno paura, anche se ci hanno imposto limitazioni ben più rigorose del coprifuoco bellico nella Parigi occupata, in cui la vita sociale poteva scorrere relativamente normale, salvo l’incubo di perdere, come nel film di Truffaut, “l’ultimo métro”.
Il timore di una pandemia dalle conseguenze imperscrutabili ha fatto il resto, e quasi nessuno ha protestato se alcuni sindaci hanno chiuso i parchi o blindato le spiagge. Ci possono essere stati abusi isolati quanto deplorevoli, soprattutto al Sud, dove il contagio è finora arrivato in misura minore e un’antica tradizione e il clima mite fanno sì che la vita si svolga più all’aperto che nel chiuso delle abitazioni. Ma, se si considera l’enormità di questa sospensione della più elementare delle libertà costituzionali, si può dire che in genere abbiano finito per prevalere l’accettazione o almeno la rassegnazione. L’insistenza dei mezzi di comunicazione sociale su certi comportamenti scorretti è giustificata, ma induce al sospetto che si stia cercando un capro espiatorio per far dimenticare gli errori di chi ancora alla fine di febbraio riapriva i locali con lo slogan “Milano riparte” o invitava ad “abbracciare un cinese”. E questo nonostante che già il 31 gennaio il Consiglio dei ministri avesse decretato lo stato di emergenza.
In certi casi si sta registrando un pericolo di segno opposto: la paura del contagio rischia di ammorbare i rapporti sociali, c’induce a guardare come a un possibile untore chi sternutisce nel marciapiede di fronte, spinge qualcuno alla delazione. Quello che i francesi chiamano esprit pionnesque (il pion nei collegi d’Oltalpe è una via di mezzo fra il bidello e l’istitutore) rischia di farsi strada fra noi, ammorbando i rapporti di vicinato. Temevamo la “sinofobia”, l’ostilità nei confronti dei cinesi. Oggi la fobia rischia di volgersi contro i vicini. Anche questo è un virus contro cui non esistono vaccini.
La città e i cani
C’è chi dice che il Coronavirus sia una malattia democratica. Lo è come lo è la morte, la grande uguagliatrice, come la definiva Gozzano, la livella, per dirla con Totò. Ma non lo è per quanto riguarda la prevenzione. Altro è trovarsi recluso in un trilocale con moglie e figli con cui condividere un computer per i compiti, lo svago, il telelavoro, altro è poter disporre di una villa con giardino o di un attico con la terrazza su cui prendere il sole. Nella rubrica delle lettere al direttore, quella che forse meglio delle altre aiuta a comprendere gli umori della gente, incomincia a emergere una certa insofferenza nei confronti dell’esibizionistico e narcisista virtuismo di molti uomini di spettacolo divenuti testimonial dell’“io resto a casa”. Quando la casa è una semplice “macchina per abitare” di pochi metri quadri, riesce difficile dare retta alle prediche. E scatta fatalmente la tentazione dell’invidia.
Ma l’invidia è una brutta bestia e non risparmia nessuna categoria, nemmeno i proprietari di cani. Compatiti o garbatamente presi in giro, in condizioni normali, per l’abitudine di farci portare al guinzaglio da volitivi quadrupedi e di chinarci per raccattarne le deiezioni, siamo ora considerati dei privilegiati perché provvisti di una buona scusa per uscire di casa almeno tre volte al giorno. Anche sui nostri spostamenti sono stati posti dei vincoli: in teoria bisognerebbe portarsi dietro un contapassi, per non superare il limite di duecento metri da casa previsto dalla normativa. E in Francia, dove lo Stato è più presente e a volte più stupido, un burocrate che non deve aver mai avuto un cane ha limitato le uscite a non più di una al giorno (tempo massimo, un’ora).
Oggetto d’invidia dovrebbero essere naturalmente anche i quadrupedi. Con la circolazione delle auto ridotta, i bambini petulanti chiusi in casa, i radi passanti, gli autobus che procedono lenti e silenziosi, Firenze sembra tutta per loro: la città e i cani, per parafrasare il titolo di un vecchio romanzo di Vargas Llosa.
Invece non è così. Il mio bassotto è molto meno felice di uscire di quando le strade erano inquinate e rumorose. Difficilmente supera le adiacenze di casa – come se qualcuno gli avesse letto il decreto Conte, – non si spinge nemmeno fino al supermercato di prossimità, dove era solito accattare un biscottino alle casse. A volte si sofferma ad annusare l’auto con cui lo portavamo al mare, parcheggiata dinanzi casa, e per manifestare la sua nostalgia di quei momenti fa la pipì contro una ruota (ma ha ben pochi motivi di provare nostalgia per il Viareggio: il sindaco ha chiuso sia l’arenile sia la pineta e non saprei dove portarlo). Quando è in casa, di rado mi porta la palla per giocare; trascorre lunghe ore disteso al sole nel soggiorno, come me, del resto, con la differenza che lui non perde tempo a leggere i giornali (è la prova che è più intelligente). Certo, va per gli undici anni, non ha più l’irruenza del cucciolo e comincia a risentire degli acciacchi dell’età; ma persino negli altri cani, più giovani di lui, avverto un comportamento analogo. Li sento di rado abbaiare, “scagnare”, non li vedo azzuffarsi festosamente o strappare il guinzaglio di mano ai padroni per inseguire un gatto o un piccione. È come se questa assenza di umani, questo silenzio innaturale, quest’atmosfera sospesa, i volti travisati da strane maschere dei passanti e degli stessi padroni facessero capire loro che qualcosa è cambiato, che qualcosa di grande e terribile incombe, che il mondo non sarà più lo stesso, nemmeno per loro. A volte i cani capiscono come e quanto gli uomini anzi, forse, di più.
COMPLIMENTII! UN ARTICOLO SCRITTO CON QUELLA LEGGERA IRONIA CHE CI FA ALMENO SORRIDERE DI QUESTI TEMPI…
I bassotti, i cani preferiti di Guglielmo II Imperatore Tedesco, che (quasi) sempre l’accompagnavano… Qui un buon ristorante di cucina tedesca, ora chiuso ovviamente, si chiama “Dackel”. Ah, Mein Dackel Waldemar…