Continua il diario di questa lunga stagione-covid 19. Da persona che ama giocare con le parole, pensavo ai sinonimi per indicare la situazione in cui stiamo vivendo: domicilio coatto, segregazione, arresti domiciliari, isolamento, quarantena, confino… Sì, lo so, non si tratta di espressioni in tutto e per tutto equivalenti, ma rendono lo stato d’animo di fondo di tutti noi: la sensazione di essere costretti, obbligati a non fare una quantità di cose legate alla nostra natura di esseri sociali e a stare in casa. E’ per questo che non ho aggiunto “eremitaggio”, frutto di una libera scelta, di una specifica vocazione.
“Io resto a casa”: questo è il mantra (l’hashtag, nell’orrendo linguaggio informatico) di questi tempi. Con una serie di sottintesi: così non metto a repentaglio la vita e la salute degli altri; imparo a conoscere meglio la mia stessa dimora e, chissà, il/i miei conviventi altrettanto obbligati; sono costretto alle attività edificanti che avevo trascurato nella mia vita precedente (lettura, ascolto della musica, gioco con i figli – ovviamente per chi figli ne ha – esercizio di qualche hobby domestico). Certo, come in ogni situazione, è possibile cavarne aspetti positivi e negativi (ma attenzione, ci hanno appena detto che il termine “positivo” oggi ha un significato clinico decisamente… negativo).
Penso allora a chi una casa non ce l’ha, i famigerati “senzatetto”, già in difficoltà nell’esistenza “di prima”. E ora? Che senso hanno, per loro, gli inviti ossessivi e la serie di moduli di autocertificazione?
Ma penso anche a chi, diversamente dai privilegiati come me, dispone solo di un alloggio di pochi metri quadrati, senza balconi, terrazzi, giardini. Sono casi, questi, in cui non è difficile ipotizzare a breve psicopatologie non facilmente assorbibili; le cronache poi hanno addirittura riferito di episodi di violenza domestica. La claustrofobia: ecco la parola, ed ecco l’attenuante per le trasgressioni a regole problematiche, ad esempio, per le Nanninelle e le Samante dei vicoli di Napoli e di Bari vecchia, luoghi che vedono assieparsi nei “bassi” sei, otto, dieci persone di tre generazioni, e dove la vita quotidiana si svolge, per forza di cose, all’aperto, fuori di casa, in un clima di fiducia e di solidarietà reciproca, di tutti verso tutti, oggi incrinato fin dalle mascherine obbligatorie ma introvabili: sarà lei, sarà lui l’untore? E l’intimità? I giovani Gennarini e Nunziatine, freschi sposi, come faranno a goderne, in mezzo a genitori e nonni, fratelli e cognati, nipoti e zie? E’ vero, il problema c’era anche “prima”, ma adesso diventa ineludibile…
E, sempre a proposito di astinenze – e di positività… – tutti coloro (quasi tutti…) che accusano una qualche dipendenza, in questo periodo sono costretti a inopinate sofferenze. Difficile cercare il “fumo”, difficile cercare soddisfazioni sessuali fuori casa. Leggevo una fascinosa pagina in prosa di Dino Campana, in cui si legge di “certe notti” in case dall’arredamento e dalle presenze dall’aria esotica e sensuale: ecco, fra le attività sospese, o almeno ridimensionate, c’è quella delle numerose “bocche di rosa”, che non possono più aspettare i loro clienti nelle notti urbane. E tralasciamo la riconversione della delinquenza: in ribasso gli scippi e i furti negli appartamenti, crescono le truffe (magari, per mancanza di turisti, non quelle di Totò che vende la Fontana di Trevi); ma per la grande delinquenza, quella dei “colletti bianchi”, le operazioni truffaldine e lucrose, quelle appoggiate nei paradisi fiscali e praticate via internet, l’epidemia può addirittura trasformarsi in occasione di speculazioni (quasi) pulite…
È stato un provvedimento eccessivo a mio avviso