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Home Cinema

Cultura (di P. Isotta). Quarant’anni senza quel genio di Peppino De Filippo

by Paolo Isotta*
30 Marzo 2020
in Cinema, Cultura
7

Eduardo Scarpetta è figura dagli aspetti anche sordidi. Cornuto, e se ne vantava: “’E mèe sò corna d’oro!”. Il cornificante era Vittorio Emanuele II. Vero è che a Napoli e Palermo vige l’aureo e realistico proverbio “’O Rrè nun fa corna, Lu Rrè nun faci cuorni!”. Quante lignées gentilizie delle più illustri hanno per fonte corna regie, e il marito cornificato dal Re non solo non deve adontarsene, deve sentirsene onorato. (Poi il concetto si estese. Nei salotti parigini, il ravennate conte Guiccioli soleva presentare la consorte Teresa così: “Ma femme, ancienne maîtresse de l’illustre Byron!” “Mia moglie, che fu amante dell’illustre Byron!”. Medaglia al valore per lui, secondo lui). Attaccato al denaro. Egoista. Infame nella vita famigliare, con figli numerosi di altri letti non riconosciuti. Dalla sessualità anche torbida. Nell’autobiografia Una famiglia difficile Peppino De Filippo, uno dei suoi figli, racconta che bimbo, trovandosi in carrozza con lui, si vide infilare la mano sotto i pantaloncini e masturbare. Però era un genio, che in fondo va considerato una reincarnazione borghese e napoletana di Aristofane (solo in parte), Plauto e Molière. Questo gli venne riconosciuto da alti letterati dell’epoca, e Scarpetta resta fra i più grandi autori di teatro.

Una famiglia difficile è un libro venato di amarezza. Peppino riesce a trasfondere in modo sommamente espressivo il senso di vera esclusione sociale, la profondissima umiliazione che all’inizio del Novecento provava, e si riteneva dovesse provare, chi portava il cognome della madre. Quella dei tre De Filippo era inoltre nipote della moglie di Scarpetta. Uno dei vantaggi dei tempi attuali è che l’onta di essere “figlio di N.N.” non esiste più. Ma il libro è venato di amarezza anche per essere un resoconto analitico e sismografico crudele nella sua obbiettività della cattiveria di Eduardo verso Peppino, del disprezzo (nascente da invidia?) di continuo manifestato in pubblico verso di lui. Peppino ingoiò fiele pro bono pacis, anche perché riteneva che la compagnia teatrale dei tre fratelli fosse, com’era, cosa troppo preziosa perché venisse distrutta. Ma nel 1944 non ce la fece più. Ognuno prese la sua strada, e quella di Peppino s’incrociò di nuovo con quella di Titina, anche auspice Totò. E Titina era un altro sommo animale di palcoscenico.  Brutta: sapeva trasformare la bruttezza in avarizia e cattiveria sin grottesche. Il suo personaggio in Totò, Peppino e i fuorilegge (alatissima regia di Camillo Mastrocinque) – basta vedere come ella si tocchi i capelli simulando indifferenza – è una delle più grandi interpretazioni femminili che si siano viste al cinema.

I quarant’anni da che Peppino ci ha lasciato dovrebbero indurre a una nuova valutazione della sua figura. Egli è stato sempre da molta critica, anche per pregiudizio ideologico, tenuto in ombra dal fratello Eduardo, reputato autore e attore “filosofo” di contro a una figura di routinier. È stato a lungo, in un certo dopoguerra, l’idolo del cretino di sinistra. Venne nominato senatore a vita. Totò, il più grande attore del Novecento, non fu senatore a vita, come Borges non ebbe il premio Nobel.  L’autore Eduardo, se si prescinde da certe farse anteguerra scritte per una compagnia della quale i tre fratelli erano l’asse, come il bellissimo Sik sik l’artefice magico, ovvero quando scarpetteggia all’altezza del padre, come nel capolavoro Quei figuri di tanti anni fa, era un Pirandello dei miserrimi. L’attore era diventato sempre più lezioso, manierato, assumendo pur egli pose filosofiche e indulgendo in sempre più lunghe pause d’insoffribile retorica. Eduardo attore era davvero grande non, paradossalmente, nelle opere proprie, quanto in quelle del padre naturale: là egli sa abbandonarsi a fantastiche doti comiche; e si veda Lo curaggio ‘e nu pompiere napulitano o, ancor più, ‘Na santarella. Ma nemmeno sempre: in Miseria e nobiltà non è all’altezza del sommo testo, che attori meno titolati, come Enzo Cannavale e Rino Marcelli, hanno portato alla perfezione; e non parliamo della metafisica del film di Totò. Quando poi ha voluto fare il vero Pirandello, come nel suo adattamento de Il berretto a sonagli, fa cascare le braccia – ed è un eufemismo. Per comprendere uno dei più alti testi del teatro – l’atroce umiliazione sotto velo comico, la vendetta del paradosso filosofico – bisogna vederlo interpretato da Salvo Randone, con lo straordinario Silvio Spaccesi nella parte del delegato Spanò, Anita Laurenzi, Wanda Capodaglio e l’intensissima regia di Edmo Fenoglio …. Che tempi! Povero Eduardo. Non so se Peppino abbia impersonato Ciampa: certo sarebbe stato un grande Ciampa.

Peppino autore, per cominciare. Gli si debbono garbati o profondi testi di un realismo medio-borghese. La banalità del male (per parafrasare la Arendt), la sofferenza della normalità borghese. Ma un capolavoro assoluto come Don Rafele ‘o trombone (che nella realtà musicale è poi un bassotuba), atroce riflessione su una delle realtà più tenacemente negate e più misteriosamente reali che esistano, la jettatura. Ch’è il risvolto dell’altra realtà chiamata disgrazia, sfortuna. Lo jettatore volontario, contrariamente a quanto gl’indotti affermino, non esiste; lo jettatore può anche essere uomo o donna d’eletto sentire; e solitamente è un disgraziato. ‘O cane muozzeca ‘o stracciato, dice ancora la saggezza millenaria della mia città, il cane morde lo sventurato.  Su simile tragedia Peppino riesce a far meditare e insieme a far irresistibilmente ridere. Questa è opera del genio. Peppino è un compositore incompreso perseguitato dalla disgrazia e jettatore. Per vivere, suona il bassotuba in un complessino. Debbono esibirsi a un matrimonio. Sta vestendosi, è in ritardo, quando entra, terreo, il grande Mario Castellani. “Il matrimonio non si fa più”. “E perché?” “Lo sposo, quel bell’uomo alto, roseo, pieno di salute, ha voluto sapere come si chiama il trombone; e quando gli ho detto Raffaele Chianese è caduto a terra stecchito!” Anche questo è uno dei punti più alti del teatro.

E le corna subite, ignorate, terribili e godute. In rerum natura credo che il cornuto che non lo sa non esista. Ma quale capolavoro di comico assoluto (e latente tristezza…) ne fa Peppino in Spacca il centesimo!  Capolavoro di autore e di interprete. Ce n’è una registrazione tarda, e il Sommo riesce a trarre profitto anche da certe lentezze prodotte dalla vecchiaia. L’opposto di Eduardo.

Quando si parla dell’attore si pensa subito alla “spalla” di Totò. Ma pensiamo prima al resto. A una tecnica di recitazione fra le più consumate che si siano viste. Tempi teatrali perfetti. La capacità di far scorgere i più varî, e a volte fra loro contrastanti, stati d’animo, dall’intonazione della voce e da una mimica ch’era una complessa partitura musicale. L’avaro e Il malato immaginario di Molière di Peppino hanno pochi paragoni. Si è misurato anche nel surreale Pinter. Diciamo ancora la verità: altro che Eduardo.

E veniamo a Totò. Nulla di meno appropriato che definire Peppino “spalla”. “Spalla” di Totò sono stati persino giganti come Nino Taranto, Franca Valeri, Aldo Fabrizi, Ugo D’Alessio, Vittoria Crispo, Mario Castellani, Ave Ninchi, Carlo Ninchi, Luigi Pavese, Raimondo Vianello, Gianni Agus, Guglielmo Inglese, Aroldo Tieri o Teddy Reno. Peppino è stato l’unico capace di tenersi alla stessa altezza del, ripeto, più grande attore del Novecento. I pezzi da antologia non si contano. Sebbene Alberto Anile, autore dei migliori libri su Totò, affermi che nei films l’improvvisazione fosse molto più ridotta che la leggenda non voglia, basta ascoltare il “sonoro” non doppiato di alcuni famosi duetti per rendersi conto che i due concreavano. Peppino creava alla pari con Totò, non gli porgeva le battute. Le due “dettatura della lettera” (la seconda è in Totò, Peppino e i fuorilegge) mostrano la fulminea rapidità con la quale dalla situazione scaturiscono battute inanellate l’una nell’altra per un processo creativo che può definirsi solo miracoloso. Quando in Totò, Peppino e ‘a malafemmena (sempre Mastrocinque!) Peppino cancella col fazzoletto i suoi errori di scrittura e poi, sudando copiosamente, si asciuga collo stesso fazzoletto e si copre la faccia d’inchiostro, ci si può solo inchinare reverenti come di fronte al Padre e allo Spirito Santo. “Tu sei ladro di penne, io ti temo!”, dice in Totò e Peppino divisi a Berlino.  Possiamo mai credere che questa battuta sia della sceneggiatura? Nel capolavoro Totò contro i quattro recita il cornuto che teme l’amante della moglie voglia avvelenarlo: e quale testimone porta il pappagallo Gennarino a Totò commissario di polizia. “Non me lo intimidisca, lo gratti un poco sul pancino…!”. Chi altri potrebbe pronunciare con serietà l’idiozia surreale della battuta? I due erano peraltro fratelli spirituali. Totò venne battezzato col nome della madre, Clemente, stiratrice analfabeta, e venne riconosciuto dallo spiantato marchese de Curtis solo a ventott’anni.

Peppino aveva un talento particolare per dar volto anche a un tipo italiano abietto e meschino. La fortuna lo fece incontrare con un altro genio supremo, Federico Fellini, che lo comprese e che nel film a più mani Boccaccio ’70 firma Le tentazioni del dottor Antonio. Uno dei capolavori assoluti della storia del cinema, nel quale, oso dire, Fellini rivela un lato kafkiano di Peppino che altri non avrebbe intuito.

Da che ebbi uso di ragione fui peppinista.

www.paoloisotta.it

*Da Libero Quotidiano

Paolo Isotta*

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Comments 7

  1. guidobono says:
    10 mesi ago

    “Ma le mie son reali!” pare rispose Scarpetta ad uno spettatore che provocava, lessi… non “d’oro”, anche perchè Vittorio Emanuele II, a parte la Bela Rusin, pare non fosse molto generoso con le inquiline temporanee del suo regal talamo…già ricevevano l’alto onore…

  2. guidobono says:
    10 mesi ago

    D’accordissimo sul giudizio d’Isotta verso Eduardo: mediocre ed insopportabile!

  3. guidobono says:
    10 mesi ago

    Il tipo d’italiano vigliacco, cialtrone, abietto, meschino è un cliché, uno stereotipo abusato dei nostri cinematografari più o meno comunistoidi dal dopoguerra in poi . Così che i Sordi, Gassman, Manfredi, De Filippo e molti altri, pur grandi attori, per il mondo han finito per squalificare il tipico italiano, identificato con la finzione scenica. Che poi pure in Italia abbiamo fatta nostra, con entusiasmo di critica e spettatori. Ma Laurence Olivier, un nome a caso, avrebbe mai fatto qualcosa dl genere?

  4. Werner says:
    10 mesi ago

    Peppino De Filippo e Totò, due grandi del nostro cinema. Due maestri della comicità, quella vera, genuina e senza scadimenti troppo volgari.

  5. Fernando says:
    10 mesi ago

    Fin da giovincello seguivo con piacere Peppino in TV,Eduardo lo trovavo sciatto antipatico veniale.
    Poi quando lo vidi ad Alassio su una Porsche scoperta che si pavoneggiava ed era già anziano (credo nel 75) confermo’il mio giudizio.Anche come attori siamo in caduta libera..Ricordo con piacere alcuni del tempo andato..Tino Carraro,Salvo Dandone,Aldo Fabrizi,Gianrico Tedeschi etc.Sul piano planetario John Gielgud Lee Marvin..

  6. Fernando says:
    10 mesi ago

    Randone**

  7. Giovanni says:
    10 mesi ago

    Mi piace ricordare Peppino come spalla di Totò in molti film

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