Continuo qualche pacata riflessione attorno al flagello del coronavirus, senza invettive o presunzioni di verità – come s’avverte sovente su face book – A me pare che si possa affermare che la questione del coronavirus dimostri, in maniera inconfutabile, che le società moderne sono fragili come cristalli. Ci vuol poco a mandarle in frantumi. Si assiste ad una inquietante dicotomia fra le conquiste del progresso e la precarietà dello stesso. Noi viviamo in società (quella italiana come quella francese,quella inglese come quella americana e via dicendo) estremamente avanzate: interconnessione, reti informatiche, industrializzazione, automazione. Catene di distribuzione alimentare, utilizzo dei droni, insegnamento a distanza e via dicendo lungo un elenco che potrebbe essere chilometrico. Eppure, basta un virus che manda tutto al tappeto. Quasi istantaneamente le città ergono confini, le fabbriche chiudono, le scuole e lo sport si mettono in stand-by. La produzione di beni si blocca. A malapena reggono la catena alimentare e la distribuzione dei farmaci. Bastano due o tre mesi di sosta per far temere un crollo economico di proporzioni immani.
Credo che tutto questo ci debba far pensare: la struttura delle società moderne si poggia su equilibri estremamente precari (e crisi simili a quella odierna, magari causata in futuro da emergenze ambientali, si presenteranno senz’altro). Forse è il momento giusto per ripensare al nostro sistema di vita. Forse ha ragione Serge Latouche, che da molti anni afferma che dobbiamo andare verso una ‘decrescita felice’. Quando vado in un paesello lucano sui monti, San Fele, mi accorgo che però quella vita forse aspra ed essenziale è il futuro dell’umanità. Gli abitanti, in gran parte, sono sparsi nelle masserie: lì, nella masseria, ci sono galline e pecore, c’è l’orto coi pomodori e l’insalata. E’ un’economia bastevole a sé. Non ha bisogno di nulla, non teme crisi economiche. Non c’è spreco o lusso. La dispensa è sempre piena di formaggi e patate. Fuori, crescono alberi da frutta. Forse, dopo l’esodo degli ultimi decenni dalle campagne verso le città, la direzione dovrebbe capovolgersi. Tantissimi paesi sono quasi abbandonati, tante campagne infruttuose. Chissà che il ritorno alla terra non sia la soluzione per un’umanità sempre più raffinata sul piano tecnologico, ma sempre più esposta alle crisi finanziarie.
Assolutamente non d’accordo! Per la ‘decrecita felice’ (già una contraddizione in termini) bisognerebbe aver raggiunto prima e superato la ‘crescita felice’, ma così non è per milioni di italiani.
Una società industriale non torna rurale. A meno di un cataclisma di portata eccezionale! Son solo chiacchiere…
Non era rurale nemmeno la Firenze del ‘400!