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La morte è da sempre uno degli elementi narrativi più importanti della storia, se non il più importante. Forse perché della vita è l’unica certezza.
In ogni storia, da che mondo è mondo, è proprio l’accezione della morte a dare il senso principale alle vite dei protagonisti. La morte dei buoni da vendicare in quanto ingiustizia, la morte dei cattivi risolutrice in quanto giustizia, la morte degli innocenti che nulla possono farci. La morte è un elemento narrativo fondamentale sotto forma di paura di morire, nemico dal quale fuggire, passaggio di consegne, momento eroico o macchia di codardia. La morte è motore narrativo potentissimo e non esiste racconto che la escluda dai suoi schemi: succede da Gesù Cristo all’ultimo dei romanzi tascabili passando per Dante Alighieri, e quei racconti che la evitano lo fanno con il preciso intento di non confrontarsi con lei.
Le storie, intese come racconti create dalle persone, modificano nel tempo la percezione dei propri elementi – morte compresa – e il volume dei racconti orienta la storia, intesa come History.
Viviamo oggi un dramma che entrerà nei libri di storia intesa come History, un dramma che ci sbatte in faccia l’elemento della morte nel peggiore dei modi: la morte dei tanti italiani colpiti da Covid-19 ha un senso difficile da raccontare e senza un inquadramento narrativo chiaro diventa un mostro terribile.
Se pensiamo al valore della morte, viene in mente subito il nostro Inno Nazionale, “Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”. Siamo pronti? Basti pensare alla manifestazione di apertura di Expo 2015 in piazza Duomo a Milano. Era l’inizio di maggio e un coro di bambini metteva in scena l’Inno di Mameli con una sorpresa finale: “Siam pronti alla vita!”. La morte che diventava vita e veniva ripresa da Matteo Renzi, che ne faceva una nuova vision nazionale. Ecco, questo è puro racconto che prende uno dei suoi elementi principali, la morte, e ne cambia totalmente il senso rispetto alla narrativa originaria. La morte che scompare così dalla prospettiva di atto eroico, sostituita dalla ben più gioiosa e tranquillizzante vita.
Un altro chiaro esempio di come la percezione della morte venga modificata nel tempo da nuovi schemi narrativi ci porta alla ricorrenza di Halloween, che da una ventina d’anni ha oscurato “mediaticamente” Ognissanti e la Festa dei Morti. Alcune diffuse tradizioni vedevano le famiglie raccolte alla vigilia della Festa dei Morti: si preparavano cibi tipici anche per i familiari scomparsi e dopo cena non si sparecchiava, pensando che qualcuno dovesse arrivare dopo. Si parlava ai piccoli degli antenati morti, li si accompagnava l’indomani al cimitero per fargliela vedere in faccia la concretezza della morte.
Perché fare i conti con la morte può essere un ottimo esercizio per celebrare la vita, a patto che la vita non venga inflazionata a trionfo di comode ed effimere gioie. Che sono più facili, certo. Più semplice tagliarla dalla pellicola, la morte, come si fa con quelle scene vietate ai minori in cui l’attricetta di turno mostra un capezzolo, perché vaglielo a spiegare poi ad un bambino che cos’è un capezzolo.
Oggi a Bergamo, a Brescia, a Cremona, a Milano e in tutta Italia il Covid-19 entra in scena all’improvviso nella nostra storia come cattivo senza motivo, in un quadro narrativo che disorienta e soprattutto disorienta chi deve fare improvvisamente i conti con qualcosa che la narrativa degli ultimi anni sembrava aver messo in soffitta.
Non scrivo affermando, bensì chiedendo, anzi chiedendomi. Scrivo dopo aver saputo che il papà di una cara amica ha lottato e non ce l’ha fatta. Penso a cosa significhi tutto questo e cerco di immaginare le nostre prossime storie.
Abbiamo visto tanti film come l’Ultimo uomo sulla Terra, Occhi bianchi sul pianeta Terra, Virus Letale. Abbiamo letto romanzi come l’ombra dello scorpione di Stephen King e pensiamo che cos’è del genere accadano solo nei film o che magari a noi non possano accadere. Invece succedono e quando accadono siamo impotenti