Ragionare insieme sull’esperienza che tutti stiamo vivendo può aiutarci a attraversarla. Raccolgo quindi l’invito a farlo giunto anche dagli amici di Internet dove i precedenti interventi di Sguardo Selvatico hanno suscitato interesse e richieste di continuare la riflessione.
Una novità importante è il luogo da cui è partita la diffusione del Covid-19 in Occidente: l’azienda multinazionale. Il virus ha cominciato a gironzolare per l’Italia dopo essere sbarcato a Monaco il 19 gennaio portato da una cinese, giunta da Shangai, che l’ha trasmesso a un collega in una riunione di lavoro tra il 20 e il 21 (come ha ricostruito il professor Massimo Galli e riferito Antonio Grizzuti su La Verità del 17 marzo). Prima del 27 di gennaio (quando la cinese avvisò l’azienda di essersi accorta della malattia) il virus era già stato abbondantemente ridistribuito in altre riunioni aziendali, e poi nel lodigiano e in tutto il nord Italia. Una novità assoluta nella storia della salute: il contagio che poi ha portato l’epidemia in intere regioni e Paesi non si è diffuso nelle trincee di guerra come nella “Spagnola” del 1918, coi suoi milioni di morti; né da navi che rientravano da paesi lontani (come accadde per diversi tipi di peste); né nei bordelli o movide come accaduto in epidemie precedenti e successive in giro per il mondo. Il luogo e i modi del contagio, almeno nelle operose regioni della Baviera e del nord Italia, notoriamente tra le più produttive e ricche d’Europa, è stato quello della riunione d’azienda, per prima una multinazionale tedesca, attiva anche in nord Italia. Un luogo sociale che nell’immaginario collettivo è di solito ritenuto asettico, circondato di attenzioni igieniche, in una visione del mondo caratterizzata da sicurezza, pulizia e affidabilità, è diventato incubatore e produttore di una patologia che mette a rischio non solo la vita delle persone, ma l’ordine e la stessa stabilità economica e politica di Paesi e continenti. Tanto è vero che diversi Presidenti, da Johnson a Macron (certo non Giuseppi, da lui nessuno neppure se lo aspetta), annunceranno poi con franchezza “Siamo in guerra !”
Tranquillizzatevi: non vengo da Marte e almeno da quando ho 10 anni ho capito che l’azienda è il centro propulsore del mondo in cui è trascorsa la mia vita; né mi aspetto o mi auguro che ciò finisca a breve termine. Però la cosa è interessante, e anche inquietante. In effetti, è da almeno il 1930 che l’azienda è al centro della situazione mondiale e delle sue trasformazioni, e non è stata una passeggiata. Nel 1932 i lavoratori della aziende industriali ispirarono a Ernst Jünger il libro: Il lavoratore -Der Arbeiter (pubblicato poi solo nel dopoguerra in Italia con un titolo improprio: L’operaio, Guanda), come protagonista della nostra epoca. Da allora ad oggi nella maggior parte degli eventi importanti l’azienda e i suoi lavoratori hanno assunto la centralità che in epoche precedenti ebbero gli Imperi, la Chiesa, gli eserciti. Dal gennaio 2020 anche la pandemia è diventata materia aziendale: l’impresa industriale infatti, centro di sviluppo, può diffondere anche specifiche patologie; l’azienda è anche patogena.
Lo si era però già intuito. Un anno dopo la suggestiva immagine di Jünger dei lavoratori delle industrie come moderni guerrieri e trasformatori del mondo moderno in una società del lavoro, Adolf Hitler aveva portato il “partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi” alla vittoria, in una situazione di grave crisi economica e morale. Negli anni successivi la grande impresa industriale ebbe un ruolo centrale nel produrre la macchina da guerra nazista (il comunismo sovietico era già presente, ma con sorpresa di Karl Marx si era affermato in una società allora prevalentemente contadina). Verso il terzo millennio la comunità delle aziende multinazionali ha poi prodotto l’ideologia e la pratica spersonalizzante della globalizzazione. Apparsa ora anche come incubatrice (tra l’altro) delle nuove e devastanti epidemie di questi ultimi decenni: da AIDS, ad Ebola (tuttora attivo in Africa), ai Coronavirus potenti dalla Sars in poi, all’aviaria, ai molti altri.
Come mai l’impresa industriale, già vista all’inizio del 1900 (non solo da Max Weber) come la protagonista della modernità, finisce poi col partecipare alla trasformazione dei suoi lavoratori dai “guerrieri d’acciaio” di Ernst Jünger nelle milizie naziste, e, finito il dopoguerra, col produrre la globalizzazione con il suo caos etico e spirituale e i suoi micidiali virus, di cui oggi il Covid 19 è l’attuale (ma non unico) campione? Come mai l’industrializzazione del mondo finisce in epidemie costosissime, e anche mortali? Eppure, basta un minimo di attenzione clinica per capire che proprio nello sviluppo industriale si è infilato qualcosa di antivitale, di malato, che produce morte. Di che si tratta?
Jünger già nel suo inno ai lavoratori d’acciaio della scienza e della tecnica (che nella loro versione nazista non persuadevano neanche lui) aveva inserito alcuni avvisi, interessanti da rileggere oggi. Anche allora (1932), notava:
“né il lavoro né la proprietà danno più frutto … più sale il volume degli affari più il guadagno diminuisce … lo testimonia il peggioramento del tenore di vita del lavoratore … il risveglio indiscriminato dei bisogni, la frenetica rincorsa delle comodità senza le quali l’uomo crede di non poter più vivere e che aggrava la sua dipendenza e i suoi vincoli”.
Il problema era già lì: tale e quale a oggi. L’irruzione dei lavoratori dell’industria nella storia però – Jünger ne è certo- avrebbe cambiato il mondo:
“non può più esistere nulla che non sia concepito come lavoro. Lavoro è il ritmo della mano, dei pensieri, del cuore, è la vita diurna e notturna, la scienza, l’amore, l’arte …”.
Così accadde: il lavoro, con il guadagno, e il consumo, ha poi occupato ogni spazio vitale. Ma le disfunzioni che Jünger elencava prima dell’arrivo di Hitler sono rimaste.
Non è però solo un caso che lo stesso autore de Il lavoratore parli molto di dominio e di potere, ma solo di passaggio dell’ “aspirazione di dare un senso alle cose”. È anche per questa svalutazione della ricerca di senso rispetto alla brama di potere e di possesso che la storia scivolò poi da quella parte: prima con Hitler e Stalin, e poi, poco dopo finita la ricostruzione, con lo sviluppo dai tratti maniacali del mondialismo e della globalizzazione e i topi e i pipistrelli a segnare con i loro doni mortiferi il ritmo delle nostre crisi e riprese. La civiltà industriale mondializzata ha coltivato il sogno paranoide di sostituire la tecnica a Dio, unica risposta alla ricerca di senso che comunque assilla l’anima umana, che in sua assenza si ammala. Ora la tecnica deve tornare al suo posto di utile strumento, e non sostituto di corpo e anima; l’economia al suo, di fornitore di mezzi e non indicatore dei fini. E il lavoro al suo: fornitore del pane quotidiano, e non ossessione maniacale, padrone della vita umana. Il Signore è un altro. (da “La Verità”, 22 marzo 2020)
Le condizioni dei lavoratori non peggiorarono affatto come ipotizzato da Jünger, che non era certo uomo d’officina. Chi è interessato magari si legga qualcosa di Riccardo Ruggeri, già alto dirigente Fiat, CEO di New Holland, ma in gioventù operaio, figlio e nipote di operai, nato in una portineria di piazza Vittorio, a Torino, negli anni ’30. Distribuisce gratuitamente e settimanalmente un interessante magazine on-line da lui coordinato ‘Zafferano’…
È falso affermare che “La civiltà industriale mondializzata ha coltivato il sogno paranoide di sostituire la tecnica a Dio”. Dio non l’ha cacciato nessuno, a parte Stalin e compagnuzzi con risultati dubbiosi. Io sono seguace del ‘libertinismo settecentesco’, quando la maggior parte della cultura europea questionò l’esistenza di dio. Ma l’industria del 1700 poteva al massimo contare sulle prime macchine a vapore, quelle di Manchester e Birmingham… Se poi la gente comune non crede più alle frottole dei parroci sarà perchè si è fatta furba…
X Redazione: mi scuso per l’off-topic, volevo solo avvisare che spesso ormai ho difficoltà ad accedere alla pagina nonostante la mia connessione sia ottima e non riscontri gli stessi problemi su altri siti. In pratica il caricamento sia della homepage che degli articoli risulta difficoltoso ed a volte proprio impossibile, chiedo venia per il disturbo ma volevo solo segnalare questo piccolo problema.
Grazie stefano, segnaliamo al webmaster
Viviamo in un mondo troppo aperto, e le multinazionali, che come suggerisce lo stesso nome operano economicamente in tutto il pianeta, sicuramente contribuiscono a far sì che con lo spostamento continuo dei loro dipendenti un’epidemia che si sviluppa in una determinata area, diventa una pandemia espandendosi ovunque.
Spostamenti? Basta il turismo, tutti i romani e milanesi ecc. che andavano a Barcelona ecc. con i voli low-cost del weekend. Il turismo è globalizzazione? Certo, sennò non sarebbe turismo, diffusosi nel decenni finali del XIX secolo. Ma da quel tempo anche i grandi circhi (a partire da quello di Buffalo Bill, Barnum, ed i tedeschi Sarrasani e Krone, poi gli italiani Togni ed Orfei ecc.) spostavano centinaia, migliaia di addetti ed artisti per ferrovia attraverso i continenti, da un Paese all’altro. Quindi le occasioni di contagio erano molteplici, altro che il manager tedesco e la cinese…
Nel 1967 atterrai a Heathrow con un Trident Bea che partiva da Torino giornalmente. Uno dei tre aeroporti di Londra. Ebbene, già nel 1967 (53 anni fa) atterrava ad Heathrow un aereo ogni 90 secondi! E non parliamo dei viaggi ancora per mare sui transatlantici, la babele di Genova (via Prè ecc.) e dei porti del mondo, prima che i containers rivoluzionassero le modalità di vita degli equipaggi delle navi mercantili… Soste minime nei porti, equipaggi che non toccano terra per mesi, ed addio pure a…puttane e canzoni dell’angiporto!
Il mondo non si può chiudere. Non vogliamo un ‘mondo chiuso’! Vogliamo viaggiare, fare esperienze all’estero, scopare straniere, divertirci, non solo lavorare o studiare, questa è stata la mia vita, la vita di molti della mia generazione e non vorrei che fosse diversa per i miei nipotini, quando sta ‘merda’ pandemica sarà passata…