Queste settimane – che probabilmente diventeranno mesi – di forzosa permanenza in casa sono il focolaio di una serie di memorie, riflessioni, suggestioni, con tutto un seguito di implicazioni politiche e letterarie (i due ambiti che costituiscono i miei principali peccati capitali). Lasciamo ai margini, per una volta, la politica, e guardiamo alla letteratura (ma non di rado i rispettivi spazi confinano e in qualche caso si sovrappongono).
L’idea di valorizzare l’ambiente nel quale si vive nasce, io credo, con la pittura e in particolare con i trompe-l’oeil, a partire da quelli pompeiani, passando per l’arte sacra, fino a Magritte e alle sue aperture surreali. Si allargano i confini della casa o della chiesa, per sottrarsi al rischio – o alla tentazione? – della claustrofobia, ma anche per suggerire a noi stessi che oltre quelle mura c’è una realtà “altra”, se non superiore (si pensi alle cupole dove si spalancano vertiginosi sfondi celestiali).
La letteratura ha recepito questa esigenza di leggere in profondità la dimensione del chiuso, del domestico, del quotidiano, indipendentemente dalla causa di quella permanenza fra quattro mura. Ad esempio, ad ispirare a Xavier de Maistre il suo famoso “Voyage autour de ma chambre” fu la condanna a 42 giorni di arresti domiciliari, diremmo noi, per aver partecipato a un duello. Ne nacque un resoconto avvincente come il taccuino di un viaggio avventuroso, dove ogni oggetto che cade sotto lo sguardo prima distratto e ora attento dell’Autore ha una storia da raccontare.
Ben diverso è il caso di Anna Frank, che, per sfuggire alla deportazione, divise con i familiari una sorta di auto-prigionia, in un piccolo appartamento della Amsterdam occupata dalle truppe tedesche. Nel suo diario, emergono in primo piano le regole ferree di una coesistenza organizzata e silenziosa (per non farsi scoprire); e poi la ripartizione di compiti, la scansione della giornata nelle diverse attività, perfino il gioco (ricordo che mi colpì, durante la mia visita, una scatola di “Monopoli”) e la confezione di piccoli regali per le feste, nel quadro di una necessaria frugalità.
Molti aspetti di questa reclusione domestica rispondono all’esigenza di attivare la fantasia, l’invenzione: per quello che mi riguarda, sono agevolato dal fatto di vivere in una casa piuttosto spaziosa e dotata di un grande terrazzo, arricchito da molte piante amorevolmente curate da mia moglie, oggi anche compagnia di prigionia; ma ben più di me può vantarsi di essere fortunato il protagonista di un romanzo di Fabio Carpi, che poi ne curò anche, da regista e sceneggiatore, la trasposizione cinematografica: il barone di Calatrava. Ne “I cani di Gerusalemme”, l’aristocratico, a cui presta il disincanto del volto e del rado eloquio Jean Rochefort, avverte con scetticismo e fastidio il dovere sociale di effettuare il pellegrinaggio in Terrasanta. Escogita allora un’alternativa meno rischiosa e faticosa: farà il giro del suo castello tante volte da coprire la distanza fino a Gerusalemme. Nel scorso di questo viaggio domestico, farà incontri e si troverà coinvolto in avventure non meno formative di quelle che avrebbe sperimentato in quel lungo cammino.
Quanto a me, Non ho che da guardare con lo stesso spirito di Xavier de Maistre gli oggetti da cui sono circondato, e cioè con l’immaginazione, la memoria, l’amore. Così, fantastico sulla vita quotidiana di quei miei antenati che mi sorridono dalla grande tela appesa sopra il mio divano: eccoli ritratti dal pittore in occasione di una scampagnata, con i loro cinque figlioletti, lui in pantaloni di tela turchini (una specie di jeans…) e camicia bianca aperta sul petto; lei con i capelli neri raccolti dietro la nuca, un abito dalle maniche ampie e corte (evidentemente, siamo in una giornata di tepore primaverile). La stessa signora mi sorride da un altro quadro, che la ritrae in uno scollato abito elegante, con un diadema al collo, probabilmente una tenuta da teatro o da ricevimento…
E siamo nella stessa epoca, io credo, della consolle sormontata da una grande specchiera con cornice rococò, che domina il mio salone: la “belle époque” dei dipinti di De Nittis e Toulouse-Lautrec, ancora ignara delle imminenti tragedie belliche e di quelle epidemiche, dalla febbre spagnola al Covid-19. A proposito di guerre: sono gli album di foto a riportarmene gli echi. Ed ecco mio nonno paterno, in divisa da giovane fantaccino volontario, ed ecco quello materno, più anziano, con la sua uniforme da ufficiale di fanteria, a suo tempo da me donata al Museo di Storia del Risorgimento; ma non mancano le foto del nonno materno di mia moglie, sottufficiale dell’esercito imperiale austro-ungarico, di quella dell’uniforme da ufficiale borbonico di un mio avo paterno e, infine, di quella che ritrae mio padre con la camicia nera della Milizia Universitaria… Insomma, quanti frammenti di storia patria che si mescola con quella familiare!
Tanto per continuare a fantasticare, posso fare un’escursione nel mio terrazzo, dove coesistono un piccolo uliveto, un giardino mediterraneo e perfino un angolo con qualche pianta tropicale, come quelle che vedemmo in Brasile (o nei giardini della Mortella, a Forio d’Ischia). Se poi voglio continuare le mie fantasticherie nel solco dell’esotismo, non ho che spalancare la vetrina dove custodisco la mia collezione di pugnali, comperati in occasione dei miei viaggi: rivedo e accarezzo quello preso davanti al tempio di Abu Simbel, e poi l’altro contrattato nel Gran Bazar di Istanbul, o ancora quello che mi attrasse nel sukh di Fez, e così via…
Non parliamo dei libri, non pochi dei quali sono legati a circostanze particolari: un regalo in un giorno speciale, una dedica importante, la sorpresa su di una bancarella… Insomma, non rinunciamo ai nostri viaggi, organizziamo le nostre solitudini di massa, teniamo in esercizio le nostre menti, e osserviamo l’orizzonte dai balconi, dai terrazzi, dalle finestre: semmai dovessimo scorgere i Tartari all’orizzonte, venderemo cara la pelle…