In gioventù, un anno prima dell’elezione di Reagan, tradussi e introdussi un pamphlet molto critico sulla società statunitense, pur manifestando alcune riserve sul radicalismo dell’impostazione di Giorgio Locchi e Alain de Benoist; era l’epoca in cui l’America era in piena crisi di coscienza dopo il disastro del Vietnam e la New Left stava trionfando. Poi venne Reagan, personaggio a mio giudizio molto superiore alla Thatcher, che secondo me non può essere liquidato nella categoria del liberismo. Con lui e Giovanni Paolo II ha avuto inizio il riarmo morale dell’Occidente, che ci ha liberato dalla minaccia sovietica.Questo però non ha fatto venir meno le mie perplessità su molti aspetti della civilizzazione statunitense, che dopo il decennio reaganiano sono tornati ad avere la meglio. Sono convinto che molti mali della società italiana ed europea derivino dalla accettazione acritica della way of life d’oltre Oceano e anche della cultura liberal e radical statunitense. Basti pensare alla demolizione dei monumenti a Colombo, alle assurdità del politicamente corretto, al terrorismo del “me too”, alla censura ormai in atto in molte università per chi si discosta dal pensiero dominante rischia il licenziamento, dalla lotta nei programmi di studio agli “uomini bianchi morti”. Tutte follie che ben conosciamo.
Credo però che negli Stati Uniti sia opportuno distinguere la “cornice” (gli Stati della costa) dal “quadro”: gli Stati di un’America profonda ancora legata a determinati valori etici, che in certi casi, pur fra molte esagerazioni (il fondamentalismo biblico, per esempio) potrebbero impartire lezioni a noi europei.
Quanto alla politica estera, è giusto mantenere sempre la rotta dell’interesse nazionale, senza dimenticare però che una nazione come la nostra, che non vuole investire una quota adeguata del suo Pil per la difesa e che ha abolito addirittura il servizio di leva, non può prescindere dall’adesione alla Nato.
L’intervento di Francesco Giubilei