È davvero probabile, e non solo perché ce lo spiega nel suo linguaggio immaginifico l’ultimo rapporto Censis, che gli italiani desiderino l’“uomo forte”. E che lo desiderino non tanto per improbabili nostalgie del Ventennio, ma – come ha osservato acutamente Galli della Loggia nel suo intervento sul “Corriere” di martedì scorso sul “Declino del Paese moderato”, – per insofferenza nei confronti di un apparato statale ridotto a “Leviatano impotente”. Il guaio, però, è che il desiderio di un uomo forte sia destinato a essere frustrato da un fattore su cui non si è forse riflettuto abbastanza: il fatto che gli uomini forti oggi manchino, non solo in Italia, ma un po’ in tutto l’Occidente.
Il fenomeno è legato in parte a fattori di ordine storico. L’esperienza insegna che la pianta uomo cresce più forte nelle grandi ore della storia. Una guerra, una guerra civile, una rivoluzione forgiano e selezionano personalità in grado d’imporsi ai contemporanei. La classe dirigente dell’Italia liberale, pur con tutti i suoi limiti, aveva sfidato le carceri asburgiche o borboniche, il patibolo, le armate di Radetzky. L’epopea risorgimentale ha avuto luci e ombre ed è stata spesso enfatizzata, ma lo Spielberg non era un luogo di villeggiatura. La classe dirigente fascista, in cui gli uomini forti non mancarono – basti pensare non solo a Mussolini, ma a un Balbo o a un Grandi – si formò nelle trincee della grande guerra. Era costituita da ventenni che avevano spesso comandato padri di famiglia col doppio dei loro anni. La classe dirigente della Repubblica era passata per le carceri fasciste, per il confino, per la guerra di Spagna, per l’esilio, per il secondo conflitto mondiale, per la guerra civile. E lo stesso può dirsi per buona parte della classe dirigente del primo Msi, passata da ElAlamein ai Criminal Fascist Camp o dalla mattanza che seguì al 25 aprile. I politici di oggi non sono passati attraverso questa selezione crudele ma feconda. Naturalmente è una fortuna che sia così, ma le differenze si vedono e del resto riguardano un po’ tutto l’Occidente: un Macron sta a De Gaulle come Boris Johnson, anche se ha vinto le elezioni,sta a Churchill.
A queste cause di ordine storico si aggiungono fattori di ordine in senso lato culturale. A partire dagli anni ’60 l’avvento del permissivismo pedagogico, l’onda lunga dell’antimilitarismo e l’affermarsi della cosiddetta società del benessere hanno diffuso l’idea che compito dell’educazione sia risparmiare al fanciullo e poi all’adolescente e al giovane qualsiasi tipo di trauma e di sacrificio, si tratti di un esame di maturità selettivo o del servizio militare, delle poesie da mandare a memoria o delle “flessioni” da fare per punizione. Il risultato è stato una pedagogia svirilizzante, che non insegna più a non lamentarsi per un modesto fastidio (gli scaffali delle farmacie sono piene di creme e ritrovati per alleviare disturbi di cui un tempo ci si sarebbe vergognati di lamentarsi), a non ostentare i sentimenti, a non fare “la femminuccia”. Una poesia come “If” è ormai bandita dal nostro repertorio didattico, tanto più che, come si sa, Kipling era un bieco razzista, che parlava di fardello dell’uomo bianco. Il diffondersi pervasivo del femminismo non ha migliorato la situazione. Come previde in pieni anni ’70 un pioniere della psicanalisi italiana come Cesare Musatti, a furia di non volere un uomo prepotente, le donne rischiano di avere a che fare con un impotente. Il prodotto di questa educazione è simboleggiato dalle litanie lamentose di tanti cantanti dell’ultima generazione, che ostentano la loro petulante fragilità dinanzi a coetanee più sveglie e volitive di loro. Oggi aspirazione di molti adolescenti non è più fare il “capo”, ma al massimo lo chef.
Una vita senza troppi traumi può essere anche comoda per il singolo, ma non è detto che lo sia anche per la società. Una pedagogia svirilizzante non può produrre uomini forti. La stragrande maggioranza dell’attuale classe politica sotto i cinquanta, con l’eccezione, per la verità di Salvini, è composta da obiettori di coscienza che non solo non hanno fatto il soldato, ma non hanno nemmeno giocato ai soldatini.
Come antidoto alla carenza di uomini forti Galli Della Loggia propone un sistema politico forte, non più ibernato dal “rifiuto superstizioso di qualunque esercizio del comando politico che non sia sottoposto a continue contrattazioni (e ritrattazioni)”. È la vecchia idea della “grande riforma”, su cui si sono arenate tante commissioni e si sono giocati la carriera tanti politici, da un Pacciardi, che per il suo passato avrebbe potuto aspirare al ruolo di uomo forte, a un Renzi. È un’ipotesi suggestiva, anche se su di essa è lecita qualche riserva.
È noto che la Costituzione è stata strutturata con un gioco di pesi e di contrappesi, finalizzata a impedire il riproporsi di tentazioni dittatoriali. È in questo, e non in una XII disposizione transitoria e finale introdotta in ottemperanza all’articolo XVII del trattato di pace, il vero carattere antifascista della Carta. Antifascista, ma anche anticomunista, perché la democrazia cristiana e i partiti laici minori potevano paventare, nel caso di una vittoria elettorale del Pci, l’avvento di una nuova forma di dittatura. È onesto aggiungere, però, che il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Costituzione non ha impedito per almeno vent’anni la governabilità del Paese, un po’ perché una repubblica parlamentare debole era guidata da uomini forti – basti pensare a uno Scelba, a un Pella, che inviò due divisioni al confine con la Jugoslavia in occasione della crisi di Trieste, a un Tambroni, allo stesso Fanfani, a un Taviani prima maniera, – e un po’ perché nella burocrazia, nelle Forze Armate, nella Magistratura, nella scuola, nella Polizia permaneva una classe dirigente formatasi nel ventennio fascista. Se i ministri duravano poco, per le frequenti crisi di governo, esisteva una continuità ai vertici dei ministeri che assicurava la governabilità. La vera crisi è maturata negli anni ‘70, quando per l’effetto congiunto dell’egemonia culturale raggiunta dalla sinistra specie fra i giovani e dello “scivolo” pensionistico concesso agli ex combattenti, i gangli vitali dello Stato, a partire dalla Magistratura, hanno conosciuto un rapido passaggio di consegne. A tutto questo si è aggiunto, a partire dagli anni ’90, un’ulteriore trasformazione dell’assetto istituzionale, con l’indebolimento del potere legislativo non a beneficio dell’esecutivo, ma del potere giudiziario, con l’invadenza della giurisprudenza della Corte costituzionale e il crescente interventismo del capo dello Stato, passato da un ruolo decorativo da monarca costituzionale a una funzione di supplenza, per altro almeno in parte giustificata dalla crescente instabilità del quadro politico.
Può il rimedio a questa congiuntura consistere, come auspica Galli della Loggia, in una riforma che vada incontro al “desiderio di un’istituzione politica di vertice efficace e autorevole, accompagnato dall’idea (non proprio così peregrina) che una maggiore personalizzazione del potere possa soddisfare una tale esigenza”? Non è facile dare una risposta. Una buona costituzione non può non adattarsi all’indole di governanti e governati. Lo dimostra ampiamente la Francia della quinta repubblica, in cui la costituzione gollista senza de Gaulle non basta da tempo ad assicurare una decorosa governabilità. Come dicevano i sarti di una volta, non è saggio cucire un abito che cade a piombo per un cliente gobbo.
@barbadilloit