Sì, il Muro di Berlino, a ridosso anche dell’antica Porta di Brandeburgo, con la famosa quadriga rifatta (ma alla quale i governanti comunisti avevano tolto l’aquila e la croce di ferro, ritenuti simboli del militarismo germanico) a perpetua vergogna dell’infame marxismo-stalinismo che, come una letale orda di fameliche cavallette, si era riversato nel 1945 sulla Germania ormai sconfitta, stuprando almeno due milioni di donne tedesche, assassinando e saccheggiando, smantellando quanto rimaneva dell’apparato industriale del Reich. Il tutto poi giustificato con i sentimenti di collera, in quel momento, dell’Armata Rossa, alla luce dei crimini commessi dal ‘fascismo’ in terra sovietica. Infine, imponendo la dittatura del Partito Comunista su di una porzione del Paese di Kant, di Hegel, di Goethe, ridotta al ruolo di ‘sottocolonia’ dell’URSS trionfante, militarmente occupata. Infatti, il nome ufficiale del muro di Berlino, finalmente travolto il 9 novembre 1989, era Antifaschistischer Schutzwall (Barriera di protezione antifascista, venendo comunque considerati ‘fascisti’ praticamente tutti gli anticomunisti). Fu il complesso di linee fortificate costruite dallo Stato-fantoccio della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) per impedire la libera circolazione delle persone tra Berlino Est e Berlino Ovest (al centro della Deutsche Demokratische Republik, ma sotto sovranità della Repubblica Federale) e tra Berlino Ovest ed il territorio della Germania Est.
Il simbolo particolarmente ripugnante della ‘Cortina di Ferro’, linea di confine europea tra le zone controllate dagli Alleati occidentali della WWII e quella sovietica, degli aderenti alla NATO ed al Patto di Varsavia, durante la prolungata ‘Guerra Fredda’. Ed il simbolo, altresì, di un sistema politico, di un regime totalitario imposto esclusivamente dalle forza delle armi, tanto dispotico e crudele quanto demenziale, per mantenere in cattività i propri cittadini, per impedire loro di scappare durante decenni.
‘Il muro, che circondava Berlino Ovest, ha diviso in due la città di Berlino per 28 anni, dal 13 agosto 1961 al 9 novembre di trent’anni fa, giorno in cui il governo tedesco-orientale fu costretto a decretare la riapertura delle frontiere con la Repubblica Federale di Germania. Tra Berlino Ovest e Berlino Est la linea di confine era fortificata militarmente da due muri paralleli di cemento armato, separati dalla cosiddetta “striscia della morte”, larga alcune decine di metri. Durante quegli anni, furono uccise dalla Polizia di Frontiera della Germania comunista almeno 133 persone, mentre cercavano di superare il muro verso Berlino Ovest. Tale cifra non comprendeva i fuggiaschi catturati dalla DDR: alcuni sostengono che furono più di 200 gli uccisi, mentre cercavano di raggiungere Berlino Ovest, o catturati ed in seguito assassinati. Il 9 novembre 1989, dopo settimane di disordini, il governo della Germania Est annunciò che le visite in Germania e Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio molti cittadini dell’Est si arrampicarono sul muro e lo superarono per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall’altro lato, in un’atmosfera festosa. Durante le settimane successive piccole parti del muro furono demolite e portate via dalla folla e dai cercatori di souvenirs; in seguito fu abbattuto quasi tutto ciò che era rimasto’. Il muro era lungo più di 155 km., con 302 torri di guardia, con cecchini armati. (Da it.wikipedia.org/wiki/Muro_di_Berlino; cfr. anche Francesco Radice, Il muro di Berlino, Roma, 2001; Frederick Taylor, Il muro di Berlino. 13 agosto 1961-9 novembre 1989, Milano, 2009; Gianluca Falanga, Non si può dividere il cielo. Storie dal muro di Berlino, Roma 2009).
Nel febbraio 1945, a Yalta, gli Alleati di fatto già vittoriosi sul nazismo accordarono a Stalin un via libera pressochè totale. Il malato leader newyorkese dell’ ‘Arsenale della Democrazia’ stravedeva per il despota georgiano e dati i rapporti di forza non gli fu difficile far accettare il suo punto di vista a Churchill… Disprezzava peraltro gli europei.
Il principale interesse di Roosevelt risiedeva allora nella definizione dei caratteri della Organizzazione delle Nazioni Unite, nella quale egli vedeva il pilastro su cui mantenere la supremazia globale statunitense. Egli aveva ottenuto il consenso di Stalin già in precedenza con le decisioni di politica economica di Bretton Woods (luglio 1944) che sancivano il predominio planetario degli USA attraverso il sistema monetario. Il secondo punto importante per Roosevelt era il concorso dell’Unione Sovietica alla guerra con il Giappone, che arrivò a… “guerra vinta”!
Yalta diede, come ha scritto qualcuno, “alle baionette sovietiche una rispettabile fodera di pergamena”. Roosevelt, da sempre antigermanico patologico, propose pure a Stalin un brindisi per l’esecuzione di 50.000 ufficiali della Wehrmacht (oltre a promettergli la consegna di tutti gli ufficiali tedeschi richiesti quali criminali di guerra e di tutte le Waffen-SS originarie della grande URSS del ’41, per essere tutte eliminate, ovviamente senza processo…). Venne concordata, tra l’altro, una ‘Germania tagliata in due’. Anche Berlino, la capitale semidistrutta del Reich nazista agli sgoccioli, venne tagliata in due. Prima sulla carta, poi, a maggio, nella realtà. Con il passare degli anni dalla fine della guerra, le condizioni di vita e di libertà degli abitanti del settore Est peggiorarono sempre di più; miseria ed oppressione erano la razione giornaliera dei tedesco-orientali, mentre, al contrario, la zona Ovest (con amministrazione tripartita alleata) della vecchia capitale era celermente ricostruita, si creavano opportunità, il benessere era palpabile, crescente.
Quel giorno dell’89 vivevo lontano, nel sud dell’Argentina, e mi sentii molto felice. Come se mi fossi tolto di dosso un peso. Quel Muro era un insulto alla nostra civiltà, ai nostri valori, alla nostra identità. Era una vergogna per l’umanità e non era mera questione di ideologie. Nessuno dei nostri politici e diplomatici l’aveva veramente previsto quel crollo. Fra essi, alcuni grandi conoscitori della Germania. Ma fu uno di quei momenti nei quali la forza del sentimento e della volontà s’impongono, superano ogni previsione razionale, ogni analisi del possibile. Non che tutto fosse casuale, ovviamente, ma l’accelerazione dei processi fu stupefacente. Fu veramente un gran bel giorno, per la Germania, l’Europa, per l’essere umano d’ogni continente, senza retorica.
La caduta del muro di Berlino aprì la strada alla Riunificazione Tedesca, formalmente conclusa il 3 ottobre 1990, magistralmente condotta in porto dal Cancelliere Helmut Kohl (1930 –2017), con il benestare prezioso di Michail Gorbačëv, nato nel 1931, ultimo Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, dal 1985 al 1991. Uno dei pochi alti dirigenti comunisti che, alla fine, qualcosa pur capiscono… A Perestroika e Glasnot non arrise il destino felice loro immaginato dal leader riformatore, ma contribuirono, tra l’altro, alla caduta del ‘Socialismo Reale’! Chi avrebbe poi immaginato che la Germania Orientale semplicemente sarebbe stata incorporata nella Bundesrepublik Deutschland, con Berlino quale unica capitale, e parte della NATO?
C’era stata l’Ostpolitik, la ‘politica orientale’ tenacemente voluta da Willy Brand all’inizio degli anni ’70, è vero. Nel 1987 Helmut Kohl, Cancelliere democristiano, ospitò il leader tedesco dell’Est, Erich Honecker, il primo Capo di Stato comunista in Germania Ovest. Questo venne considerato come un segno di perseguimento da parte di Kohl dell‘Ostpolitik, una politica di distensione tra Oriente e Occidente, iniziata dai governi guidati dai socialdemocratici della SPD.
Ma i progressi, pur reali, non erano sostanziosi, anzi deludenti. In politica estera, Gorbačëv, insieme con il suo Ministro degli Esteri, Ševardnadze, conseguì il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan. Gorbačëv – in vari viaggi nei Paesi del Patto di Varsavia – annunciò la fine della ‘Dottrina Brežnev’, nota anche come dottrina della sovranità limitata, il che avrebbe permesso alle nazioni del blocco comunista di tornare a prassi politiche democratiche. Le elezioni per il Congresso dei Deputati del Popolo dell’Unione Sovietica si celebrarono in marzo ed aprile 1989. Nelle elezioni, furono sconfitti molti candidati del Partito (PCUS).
Nella riunione che Mijail Gorbachov ed Eduard Shevardnadze, ebbero a Berlino Est, il 30 maggio 1987, con il Capo del Governo della DDR, Erich Honecker (Neunkirchen, Sarre, 25 de agosto de 1912-Santiago de Chile, 29 de mayo de 1994), Gorbachov propose apertamente la convenienza di “aprire le frontiere”, concretamente i valichi del Muro di Berlino, argomentando circa gli effetti positivi che avrebbe avuto la misura a ridosso della visita a Berlino Ovest del presidente Ronald Reagan. La reazione di Honecker fu contraria ad ogni tipo di apertura. Egli insistette, minacciano coloro che “vogliono rivedere lo status quo determinato dalla II Guerra Mondiale” e fu molto vago sulle riforme richieste a gran voce dal popolo. “Avanziamo a modo nostro, seguiamo le esperienze di altri, in nessun momento dimentichiamo il ruolo dell’URSS; senza di lei non siamo nulla”, disse, in un enfatico empito di cupidigia di sottomissione, il grigio apparatchik Erich Honecker, asceso chissà come ad un ruolo troppo alto per la sua mediocrità.
Gorby gli fece capire che i carri armati sovietici non sarebbero intervenuti. Budapest e Praga non avrebbero avuto seguiti. La cupula della DDR, in un disperato tentativo di mantenere il potere, non sembrava voler cedere nulla. Ed il 12 Giugno 1987, Reagan pronunció davanti alla Porta di Brandeburgo, vicinissimo alle postazioni della polizia tedesco-orientale, la frase divenuta leggendaria:
“Segretario Generale Gorbachov; se Lei cerca la pace, la prosperità per l’Unione Sovietica e l’Europa Orientale, se persegue la liberalizzazione, venga a questa Porta, aprala, abbatta questo muro!”.
Il 6 ottobre 1989 Mijail Gorbachov, chiese, a Berlino Est, in occasione delle celebrazioni del 40º aniversario della Repubblica Democratica Tedesca, un dialogo tra tutte le forze sociali circa improrogabili riforme politiche ed economiche, difese le riforme promosse da Mosca, pur chiarendo che ogni Paese doveva seguire la sua via. Ma, allo stesso tempo, sottolineò che la DDR non poteva permanere indifferente ai cambi che si stavano producendo. Il 18 ottobre 1989, schiacciato dall’ondata di scontento popolare e dalla fuga massiccia di tedesco-orientali verso Occidente, l’anziano, malato Honecker fu destituito dal suo Partito e sostituito dal cinquantaduenne Egon Krenz. Al Muro rimanevano tre settimane di vita. Già l’Ungheria aveva aperto, in agosto, le proprie frontiere con l’Austria, dando così la possibilità di espatriare in Occidente ai tedeschi dell’Est che in quel momento si trovavano in vacanza in altri Paesi dell’Europa Orientale.
Il 23 agosto 1989 l’Ungheria rimosse le sue restrizioni alla frontiera con l’Austria. A partire dall’11 settembre più di 13.000 tedeschi orientali scapparono verso l’Ungheria. All’annuncio che non sarebbe stato consentito di attraversare la ‘Cortina di Ferro’ ai cittadini non ungheresi, i profughi inondarono le ambasciate tedesco-occidentali, a Budapest e pure a Praga. Dopo giorni di sconcerto e l’arrivo del Ministro degli Esteri di Bonn, Hans-Dietrich Genscher, per una mediazione, si ottenne che i profughi arrivassero in Occidente, ma riattraversando inizialmente la frontiera tedesco-orientale. La scelta si rivelò un boomerang fatale per l’immagine e la credibilità superstite della Germania comunista: i treni contenenti i rimpatriati attraversarono senza fermarsi le stazioni tedesco-orientali, tra lo sconcerto (speranzoso) dei concittadini.
Le dimostrazioni di massa contro il governo della Germania Est iniziarono, in effetti, al passaggio dei primi treni provenienti dall’Ungheria e dalla Cecoslovacchia. Honecker aveva predetto nel gennaio dello stesso anno che l’esistenza del muro sarebbe stata assicurata per altri cent’anni. Era invece l’inizio della fine. Il nuovo governo di Krenz decise di concedere ai cittadini dell’Est dei permessi per viaggiare nella Germania dell’Ovest.
Il 9 novembre 1989, durante una conferenza stampa, convocata per le ore 18, fu recapitata a Günter Schabowski, Ministro della Propaganda della DDR, la notizia che il Politburo aveva deciso che tutti i berlinesi dell’Est avrebbero potuto attraversare il confine con un appropriato permesso, ma non gli furono date informazioni su come trasmettere la notizia. Alle 18:53 il corrispondente dell’ANSA da Berlino Est, Riccardo Ehrman, giornalista italiano di origine polacca, chiese da quando le nuove Reiseregelungen (regole di viaggio) sarebbero entrate in vigore. Schabowski cercò inutilmente una risposta nella velina del Politburo, ma, non avendo un’idea precisa, azzardò, con una improvvisata, un po’ farsesca “dichiarazione alla Totò”, diremmo col senno di poi, per lui disastrosa: «Per accontentare i nostri alleati, è stata presa la decisione di aprire i posti di blocco. Se sono stato informato correttamente quest’ordine diventa efficace immediatamente». Fu la “tomba” del Muro.
Decine di migliaia di berlinesi dell’Est, avendo visto l’annuncio di Schabowski in diretta alla televisione, si precipitarono in strada, chiedendo di entrare a Berlino Ovest. Le guardie di confine, sorprese, iniziarono a tempestare di telefonate i loro superiori, ma era ormai chiaro che non era più possibile rimandare indietro l’enorme folla, vista anche la mancanza di equipaggiamenti atti a dissolvere un movimento di tali proporzioni. Furono allora costretti ad aprire i posti di blocco e nessun controllo sull’identità potè essere eseguito. Gli estasiati berlinesi dell’Est furono accolti in maniera festosa dai loro connazionali dell’Ovest; spontaneamente i bar vicini al muro iniziarono a offrire birra gratis per tutti. (Da https://it.wikipedia.org/wiki/Muro_di_Berlino).
Il 9 novembre è quindi considerata la data della caduta del Muro. Quel giorno di trent’anni fa cambiò la storia della Germania, dell’Europa, del mondo. Cambiò, non fu la ‘fine della storia’: uno dei concetti-chiave sviluppati nell’analisi del politologo statunitense Francis Fukuyama contestualmente a quegli avvenimenti. Secondo la sua tesi, il processo di evoluzione sociale, economica, politica dell’umanità avrebbe raggiunto il suo culmine alla fine del XX secolo, a partire dal quale si sarebbe aperta la fase finale di conclusione della storia in quanto tale. Il concetto è sviluppato in un saggio del 1992, The End of History and the Last Man, e derivava da una sua precedente riflessione formulata un The End of History?, pubblicato nell’estate 1989 (prima della caduta del Muro), in risposta all’invito a tenere una lezione sul tema all’Università di Chicago.
L’impatto della caduta del Muro di Berlino su una generazione di ragazzi tedeschi è stata raccontata, tra gli altri dallo scrittore Clemens Meyer (nato il 3 ottobre 1977 ad Halle an der Saale, Germania Orientale), autore nel 2006 di Als wir träumten, tradotto in italiano da Gado e Cravero, edito da Keller, nel 2016: “Eravamo dei grandissimi”, ed in opere successive. Il racconto della generazione vissuta a cavallo della caduta del Muro di Berlino, una Germania improvvisamente libera, dove la vita diventa selvaggia e frenetica, mentre il mito dell’Ovest s’impadronisce di tutti: un’esplosione di sogni ed illusioni, una generazione rapita dal mito dell’Occidente.
La versione cinematografica, con lo stesso titolo, è stata presentata a Lipsia il 24 febbraio 2015, diretta da Andreas Dresen.
“Daniel, Mark, Paul e Rico sono cresciuti come ‘pionieri’ nella Germania dell’Est. Sono gli ultimi anni prima della caduta del Muro di Berlino e sogni ed illusioni sono amplificati dal mito dell’Ovest a portata di mano, tanto più dopo gli eventi dell’89. Con la ‘Svolta’ – la riunificazione delle due Germanie – anche la loro vita cambia, trasformandosi in una corsa fatta di furti d’auto, alcol, discoteche, incontri di boxe clandestina e quant’altro, paura e rabbia. Saltando da un piano temporale all’altro, Clemens Meyer ci presenta la Lipsia delle case occupate, degli incontri clandestini di boxe, degli hooligan, delle prime discoteche e delle bevute disperate, con lo sguardo profondo ed il sincero coinvolgimento di chi quegli anni li ha amati, ma vedendo perdere uno dopo l’altro i propri amici d’infanzia e sgretolarsi, a poco a poco, il mito dell’Ovest. Clemens Meyer, racconta, intrecciandoli, la violenza ed i sogni, la poesia e la realtà, che hanno caratterizzato la generazione vissuta a cavallo della caduta del Muro e dell’unificazione della Germania e dell’Europa. Eravamo dei grandissimi dà voce alla generazione dell’Europa unita, e in particolare alla gioventù, anche quella che da tutto quel che è accaduto ha finito per restare travolta”. (https://www.illibraio.it/clemens-meyer-eravamo-dei-grandissimi-555627).
Scriveva 5 anni fa, il 7 novembre 2014, sul sito dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano, Antonio Villafranca, con argomenti che risultano ancora attuali, ritratto di una situazione generale che certo non è stata pari alle attese:
Dopo il Muro: le illusioni della globalizzazione
“Con la caduta del Muro di Berlino tentazioni da ‘fine della storia’ avevano attraversato non solo l’Europa, ma il mondo intero. Giungeva al termine non solo la contrapposizione politico-ideologica est-ovest, ma anche quella economica tra il capitalismo di stampo occidentale e l’economia pianificata dei regimi comunisti. La perdurante inefficienza di quest’ultima aveva esacerbato e affrettato l’insostenibilità politica del modello comunista sovietico. Negli anni ’90, leitmotiv di qualsiasi descrizione del mondo e ingrediente immancabile nelle ricette per la crescita diventava la ‘globalizzazione’, epifenomeno di un mondo senza muri. Questa finalmente trionfava quale paradigma economico mondiale, rendendo quasi obsoleto e inadeguato il termine internazionalizzazione, troppo legato all’ormai angusto blocco occidentale. Con la sola esclusione dei Balcani, in cui le mai sopite questioni etniche prendevano drammaticamente il sopravvento, i Paesi dell’Europa centro-orientale traducevano tale trionfo nell’ancoraggio delle loro giovani democrazie all’Unione Europea. Dalla Polonia ai Paesi Baltici, l’UE rappresentava l’inevitabile interlocutore per garantire la sicurezza (nell’ambito della Nato) ed il canale di accesso alla globalizzazione. Qualsiasi tipo di muro, anche ideologico, sembrava crollare. Persino la Cina comunista trovava un compromesso sui generis e nel 2001 entrava nel WTO. I dati economici erano incoraggianti. I Paesi dell’Europa dell’Est che sarebbero entrati nell’UE crescevano in media di oltre il 4% all’anno. E la Cina raggiungeva addirittura valori a doppia cifra. La crisi finanziaria mondiale del 2007-2008 ha rappresentato un brusco risveglio per tutti. Le speranze nate dalla caduta del Muro di Berlino si sono tramutate in illusioni. Il mondo si è scoperto pieno di nuovi muri, meno ideologici di prima, ma non per questo meno possenti. Il Muro di Berlino semplificava la lettura politica ed economica del mondo, mentre i nuovi muri risaltano per la loro complessità. Questi infatti non tagliano nettamente in due il mondo, ma attraversano regioni, come quella dell’Unione Europea, che si credevano coese”.
L’idea dell’Euro nasce quale tentativo per evitare che questo pericolo si concretizzasse.
“Non è un caso che il ‘Rapporto Delors’ – che ha avviato il processo di integrazione monetaria – sia datato 1989. Ma proprio mentre tentava di esorcizzare il pericolo della creazione di nuovi muri, l’Euro ha commesso un ‘peccato originale’. Ha infatti sottostimato la forza di questi nuovi muri illudendosi che attraverso la creazione di una unica moneta si potesse generare convergenza economica laddove, invece, non c’era. Ma dopo la crisi il muro potenzialmente più pericoloso nell’Unione Europea, anche perché eretto con una buona dose di inconsapevolezza, è paradossalmente risultato quello all’interno dell’Eurozona stessa. Si tratta della contrapposizione tra i Paesi del nord e quelli del sud fondata su una divergenza economica che è aumentata, non diminuita, dopo la creazione dell’Euro. Guardando anche fuori dall’Ue, la complessità dei nuovi muri risalta ancora di più. Questi tagliano trasversalmente i paesi lasciando da una parte e dall’altra interi strati della società. Basti osservare i dati Ocse in termini di disuguaglianza del reddito, in costante crescita negli ultimi decenni. Se si vuole poi guardare ancora più in là, fino a ricomprendere l’intero mondo, non può non colpire la crescente divaricazione tra la remunerazione del capitale e la remunerazione del lavoro. Se ci si sposta, infine, sul piano della sicurezza, i nuovi muri anche in questo caso non mancano: la contrapposizione tra la Russia e l’Occidente, le lotte nel Mediterraneo e Medio Oriente, fino alla percezione di una rinnovata conflittualità tra diverse religioni. Come è dunque possibile gestire un mondo in cui i muri sembrano moltiplicarsi e che risultano più fluidi, complessi e opachi? Gli sforzi compiuti sul piano della governance economica sono stati notevoli, anche se spesso non fortunati. (…) Il problema sta evidentemente a monte, ovvero nella mancanza di una solida governance politica capace di ridurre le divergenze attraverso politiche fortemente integrate o quanto meno di alleggerirne l’impatto sociale”.
(https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/dopo-il-muro-le-illusioni-della-globalizzazione)
Non si può essere ciechi. L’ordine liberale occidentale appare a molti obsoleto, inadeguato, prigioniero di logiche che lo dominano e sovrastano. Mentre milioni di disperati del Terzo Mondo premono per entrare e godere dei frutti del nostro residuale Welfare. A 30 anni dalla caduta del Berliner Mauer, che in certo modo tale ordine ha consacrato, rafforzare la governance globale significherebbe fare in modo che le speranze nate dall’abbattimento di quella barriera non si trasformino in ulteriori illusioni destinate invariabilmente ad infrangersi contro i tanti muri che sono stati eretti nel frattempo.
L’Unione Monetaria ha diviso i Paesi del Nord da quelli del Sud minando un principio fondamentale della convivenza civile, la solidarietà, valore fondamentale non tanto per motivi etici, quanto economici: una zona povera consuma poco, crea instabilità politica e sociale. Essa ha determinato tali problemi perché a Maastricht i governi hanno creato una moneta unica senza l’organo in grado di governarla, cioè un Ministro dell’Economia (ed uno Stato). Solo la BCE. Dove al mondo esiste una moneta senza Stato, che è l’ente che gestisce la politica economica, il riequilibrio territoriale ecc.? In Europa chi si occupa di lottare contro le crescenti diseguaglianze, contro gli squilibri, contro la disoccupazione? C’è una moneta unica, l’Euro, ma non un’unica politica economica, che gli Stati hanno voluto mantenere a livello nazionale, nell’illusione di poterla gestire autonomamente e di catturare poi il consenso elettorale, derivante e fluttuante.
Molto deve essere rivisto e modificato. Con urgenza. Ma tornare indietro è quasi impraticabile, velleitario, ed anche solo coltivarne l’illusione potrebbe condurre a qualcosa di peggio; alle viscide, pericolose regioni del “si salvi chi può”, dell’anarchia “tribalizzata e (pur sempre) globalizzata”. In economia, in caso di sganciamento dall’Euro, ad una spesa incontrollata, spinta da richieste pressanti; più prosaicamente a caotici scenari di iperinflazione, che sempre danneggia i ceti più deboli.
Scrivevano, un anno fa, vari esponenti politici di rilevo, parola più parola meno, tra i quali Giorgia Meloni, su Facebook: “A 29 anni di distanza i popoli europei si trovano di fronte un altro muro, quello eretto da burocrati e speculatori. Sulle macerie del muro eretto dall’€uro nascerà una nuova Europa, quella fatta di nazioni, identità e cooperazione. Tenetevi pronti!”. La burocrazia di Bruxelles appare sovente miope, ipertrofica, autoreferenziale. La finanza rapace. Però, come il pasticcio della Brexit dimostra, è più difficile uscire dall’EU che entrarvi, e nonostante che il Regno Unito mai abbia adottato l’Euro come moneta unica.
Molto, moltissimo, è stato detto sulla ‘Caduta del Muro’, sulle speranze, le attese allora suscitate.
Un po’ meno sui furbastri ‘comunistoni’ italiani (e non solo) che pensarono di sopravvivere politicamente, riciclarsi, ‘cavalcare la tigre’, proclamando agli sprovveduti ed ai creduloni: ‘Abbattiamo tutti i muri’, quasi anticipando l’odierno papa argentino. Pare disse Craxi nel ’92: “quella storia è finita, quella del comunismo internazionale, e io non voglio che nemmeno un calcinaccio di quei muri mi cada in testa”. In testa non gli arrivò un calcinaccio, ma “Mani Pulite”…
Il trentennale sarà un’altra occasione per ripercorrere, valutare, analizzare ulteriormente, a livello storico, politico, sociale, economico, il Fall der Berliner Mauer, che fu un evento realmente ‘epocale’ ed i suoi seguiti, comprese le disillusioni, brucianti, le incognite. Speriamo un esercizio non solo celebrativo, ancorché logico e meritato, neppur sterilmente critico in eccesso, ma utile per le sfide e le prospettive che incombono minacciose.
(Berlino, la “striscia della morte”, 1986)
Evento storico importante, perché simbolo della fine del Comunismo. Peccato che la Caduta del Muro abbia spianato la strada all’affermazione di qualcosa di ben peggiore, ossia il liberalprogressismo, liberista in economia e progressista in politica. Lo schifo dello schifo.
Ben peggiore con cavolo!
Werner. Ma non ti vergogni di scrivere cose assurde? Forse tu non ci sei mai andato in quei paradisi del virtuoso “anticonsumismo proletario”, tranne la loro Nomenklatura che aveva il privilegio di andare in ospedali attrezzati e ben riforniti supermercati e shopping “consumistici”….