L’ultima durissima sentenza del Tribunale di Milano, con la quale Silvio Berlusconi è stato condannato a sette anni di reclusione e all’interdizione perpetua dei pubblici uffici, ripropone l’irrisolta questione del rapporto tra politica e magistratura, che ha decretato la fine della prima Repubblica ed ha irrimediabilmente segnato anche la seconda, ponendo i presupposti per il suo declino. I giudici milanesi, sia pure inconsapevolmente, hanno rammentato al Paese che senza affrontare una volta per tutte il “nodo giustizia” anche il grande sforzo di solidarietà politica, che ha consentito di dare un governo al Paese dopo le elezioni di febbraio e di riavviare il percorso delle riforme istituzionali, rischia di non contribuire all’auspicato superamento dell’attuale gravissima crisi politica, sociale ed economica, che ci attanaglia ormai da qualche anno.
L’ultima condanna di Berlusconi rappresenta, dunque, l’ennesima mina che i “guastatori” dell’una e dell’altra parte – con una spregiudicata strategia di opposti, ma convergenti estremismi – intendono utilizzare per far saltare ogni tentativo di pacificazione nazionale. Riprendono, dunque, fiato, dopo qualche mese di forzata apnea, i giacobini di tutte le risme. Un tossico miscuglio di magistratura politicizzata, di giornalismo giustizialista, di radicalismo politico di destra e di sinistra e di qualunquismo presuntuoso, quanto ignorante, che con lo scontro frontale tra “berlusconiani” e “anti-berlusconiani” ha alimentano in questi anni immeritate fortune politiche e professionali in danno dell’Italia e degli italiani.
Non si tratta certo di sottovalutare le colpe di Berlusconi, quanto, piuttosto di comprendere che fin quando lo stesso sarà riconosciuto dagli elettori come leader indiscusso del centrodestra, le questioni giudiziarie che lo riguardano si intrecceranno, inevitabilmente, con il suo ruolo politico ed istituzionale. Proprio tale intreccio, in tutti gli ordinamenti democratici, giustifica in termini giuridici le cosiddette “prerogative”, variamente disciplinate, ma che, in tutti i casi, non sono certo “privilegi” di casta, bensì legittimi e temporanei trattamenti differenziati nei confronti di chi – pro tempore, appunto – assolve taluni delicati ruoli sul piano politico e costituzionale.
Del resto i Padri costituenti – che pure uscivano da una sanguinosa guerra civile – avevano ben chiara l’importanza dell’equilibrio tra i Poteri dello Stato per assicurare la tenuta delle regole democratiche. Anzi, ancora a monte, erano chiaramente consapevoli del fatto che – nonostante ci si stesse avviando, sul piano internazionale, verso la logica dei blocchi e alla “Guerra fredda” – la reciproca legittimazione tra le forze politiche costituiva (e costituisce ancora oggi) il prerequisito della dialettica democratica e il presupposto per le tenuta delle istituzioni.
Non a caso, dunque, la Carta costituzionale, nel testo originario, prevedeva taluni importanti meccanismi volti a garantire un giusto equilibrio tra politica e magistratura. Tra questi, l’immunità parlamentare sub specie di “autorizzazione a procedere” (art. 68 Cost.), inopinatamente abolita nel 1993 sotto la pressione mediatico-giudiziaria di Tangentopoli; il sistema di accertamento della responsabilità penale dei Ministri (art. 96 Cost.), inizialmente affidato alla cognizione della Corte costituzionale, ma modificato nel 1989; e, ancora, l’immunità del Capo dello Stato, se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.)
Per converso, anche il modello costituzionale di magistratura fu interpretato dal legislatore ordinario in modo da assicurare ai pubblici ministeri le stesse garanzie del giudici e, soprattutto, una quasi assoluta irresponsabilità; la qual cosa, per la verità, non è affatto prevista nella Costituzione italiana, né, tantomeno, nelle Carte e negli ordinamenti giudiziari delle altre democrazie contemporanee.
Ad ogni modo, ridotte le prerogative a tutela di Parlamento e Governo, il modello costituzionale appare oggi evidentemente squilibrato, con i risultati che sono sotto i nostri occhi. È sempre più urgente, dunque, affrontare, nel quadro delle più ampie riforme costituzionali, anche il nodo del rapporto tra politica e magistratura, partendo da una premessa di fondo: in democrazia l’avversario non si batte con le sentenze, ma con il voto. Del resto, a dispetto di tutti i radicalismi politico-giudiziari, appare ancora valido l’aforisma di Winston Churchill, secondo cui “… la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate sinora”.
*Costituzionalista, Università di Catania