Riprendendo un passo di Werner Beierwaltes, seppur relativo ad altro contesto, si potrebbe affermare che il rischio che corre la ‘Tradizione’, pensata nei termini di un qualcosa di assolutamente trascendente e metatemporale, sia quello di venir interpretata “come un vuoto assoluto e come un che di astratto” (i corsivi sono di Beierwaltes), specialmente se declinata anche come ‘Tradizione unica e primordiale’. Per ovviare a questo pericolo diventerebbe quindi necessario pensare a un qualche rapporto col piano storico; ma credo sia assai problematico, in particolar modo per la presunta ‘Tradizione unica’, spiegare come tale passaggio possa avvenire. E se pure ciò possa essere in qualche maniera mostrato (per essere dimostrato bisognerebbe invece rivolgersi alla ‘volgare’ filosofia…), rimane il fatto che la trasmissione ininterrotta di tali princìpi tradizionali, essenziale per evitare lo scollegamento con il piano ‘metafisico’, finirebbe per cadere in uno storicismo soffocante e renderebbe la presunta ‘dinamicità’ della ‘Tradizione’ un falso movimento, in quanto sterile ripetizione dell’identico.
Al riguardo, mi sembra che l’unico tentativo serio di ripensare la ‘Tradizione’, evitandone al contempo le aporie o le varie scolastiche, sia quello di Giovanni Sessa, sviluppato nel suo Tradizione, uscito per la casa editrice romano-cesenate Nazione Futura nel corso di questo 2019. Specifichiamo che si tratta di un testo breve, introduttivo, ma non per questo meno incisivo nel delineare un orizzonte di pensiero differente rispetto a ciò che solitamente si legge sull’argomento. Ma innanzitutto è bene partire dal sottotitolo del libro, che illustra il compito iniziale da perseguire: “demitizzare la modernità”. Insomma, pars destruens come necessaria premessa di quella construens. Per far ciò, non a caso Sessa si è rivolto a un filosofo, Augusto Del Noce, e, nella fattispecie, alla sua introduzione a un testo capitale di Eric Voegelin, La nuova scienza politica. Del Noce ha compreso, e per questo è filosofo, che per demitizzare la modernità (ossia per utilizzare contro la modernità le sue stesse armi) non ci si può limitare a contrapporle la ‘Tradizione’, che è un gesto di nessun peso critico. Da qui la centralità della filosofia “nella diagnosi e nella terapia della Modernità”, come ha cura di sottolineare Sessa (p. 29), e che segna lo scarto decisivo dell’indagine delnociana rispetto a quella di altri tradizionalisti, e senza dimenticare che, almeno a mio giudizio, lo stesso Del Noce aveva preso atto dell’esaurimento storico-politico della ‘Tradizione’, o, per dirla col suo linguaggio, della “rottura totale tra la teoria e la pratica”, con la conseguente consegna del passato al definitivo “non è più”, di cui, a suo parere, portava testimonianza l’apolitia dell’Evola di Cavalcare la tigre[1].
Il testo di Sessa poi procede con un’analisi della Crisi del mondo moderno di René Guénon e dell’evoliana Rivolta contro il mondo moderno, seguita da un’agile ricognizione dei vari princìpi tradizionali. Ma a me pare che, oltre al capitolo dedicato a Del Noce, siano proprio le “Conclusioni” a rappresentare il vero punto di forza del libro. È in quest’ultime pagine che la proposta di Sessa si fa ‘costituente’, sganciandosi sia dalla mera deprecatio temporis, che dalle rituali letture, incapacitanti a livello politico e incoerenti a livello teoretico, della ‘Tradizione’. Sessa pensa infatti la ‘Tradizione’ come meta sempre possibile, in tal modo sottraendola a ogni lettura paralizzante e necessitata, ma anche a ogni interpretazione rassicurante che intenda la stessa ‘Tradizione’ come per sempre al sicuro, nelle sue altezze metafisiche, da ogni ‘smottamento’ storico-politico.
[1] Si veda A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, 4 ed., Bologna 1990, p. 568 e nota 20.