Una ricca capitale scandinava in luogo dei residuali lumi parigini, colore al posto del bianco e nero, il giovane dalla faccia pulita Anders Danielsen Lie, invero quanto di più distante dal fascino decadente del dandy Maurice Ronet, a fare le veci. Affinità e divergenze, giochi di specchi e un testamento letterario passato nelle mani giuste. Oslo, 31. August, pellicola del 2011 diretta da Joachim Trier in realtà non cerca il confronto diretto con il capolavoro di Louis Malle del 1963, quest’ultimo ancora intrinsecamente legato a vizi e vezzi, al fascino estetizzante ormai perduto della capitale francese; piuttosto va ad attingere direttamente alla fonte – il romanzo breve Fuoco Fatuo (1931) di Pierre Drieu La Rochelle, sceneggiatura d’entrambi i film – per trasfigurare quel fatale gioco di disillusione in sorprendente visione contemporanea. Il canovaccio, scenograficamente ben mimetizzato, è infatti il medesimo: protagonista recluso in casa di cura per disintossicazione, giovane uomo abbandonato dalla propria donna (Dorothy/Iselin), presenza assenza importante quanto ormai irrintracciabile, distanza irreparabile e causa di grave rimpianto da dissimulare in qualche modo; altro di lei non è dato sapere – a parte un intuibile successo professionale a New York – come se la narrazione partisse da un vuoto incolmabile e innominabile; poi libertà provvisoria, respiro profondo, l’effimero tentativo di ricominciare a vivere là fuori, in società tra vecchi amici ritrovati, femmine occasionali e divertimenti sempre più logori, prevedibili, stereotipati; quindi la cruda introspezione calata in spettri d’alienazione; il mondo corre troppo veloce, disagio, inquietudine, vicolo cieco nel catartico ritorno alla droga, un piano prestabilito quale rifiuto da opporre a tutto il falso circostante e di conseguenza alla vita stessa. Al suo doppio impossibile, ai giochi di ruolo. Del finale nulla… Le feu follet (libro di Drieu e film di Malle) è un amaro calice che va bevuto per intero.
C’è un’inconfessabile lezione proustiana dietro il romanzo di Drieu, ovvero lo spavento dell’uomo moderno dinnanzi alla cosiddetta “memoria involontaria”, choc ingestibile al cospetto di tutto ciò che la volontà non può stabilire a capriccio: là una sensazione retrospettiva e passiva di madeleine (ben più di un dolcetto, bensì sigillo maledetto degli ambigui rapporti tra memoria e menzogna, tra appartenenza e oblio), qua il baratro del passato, capace di rilasciare seduzioni perdute in forma di ricordo inaccessibile e di sterile, indegna replica; così il presente, coll’inafferrabile fardello di verità perdute sulle spalle, si svuota di senso per spossatezza, cede all’effimero della contingenza, mentre del futuro non rimane altro che un’ipotesi di pantomima da respingere col coraggio degli atti ultimi. Come se solo l’elemento “tragico”, autodistruttivo, avesse la forza di squarciare i veli dell’inganno. Disperse tracce riportano anche al romanzo di Huysmans À rebours, storia di un altro solitario dedito a riempire vuoti con accumuli di artificiosità, facendo di sé sterile Wunderkammer, salvo poi cedere deluso e tornare al punto di partenza borghese dal quale era fuggito. Ma diverso è l’esito. Proprio questa impossibilità a riavvolgere il nastro, quell’inconfondibile elemento di nichilismo attivo e in fondo di vitalismo eroico frustrato, quel sentirsi sempre fuori luogo e tempo per troppo tatto, per cattiva condotta nel merdaio sociale, toglie al protagonista di Fuoco Fatuo la voglia di coccolarsi nell’indulgente decadentismo o nell’autocompiaciuto vittimismo. Drieu, manipolando con grande raffinatezza le stucchevoli vacuità della mondanità parigina, disegna qui un autoritratto (ispirato all’amico suicida Jacques Rigaut) di preveggente sincronicità, apparentemente datato e minoritario, ultimo rantolo del dandysmo a disagio nella società delle masse, dei consumi e poi dello spettacolo.
Proprio dall’essenza più pura di Fuoco Fatuo, estrapolata chirurgicamente dal regista norvegese dall’originale cornice primonovecentesca, esce fuori il contemporaneo Oslo, 31. August. “Mi ricordo quando venne abbattuto il palazzo della Philips”, dopo un’introduzione simil video8, quasi documentaristica sulle utopie realizzate del buon vivere nordeuropeo, della serie albo di polaroid “momenti felici” (famiglia, tolleranza, democrazia, progresso, ecologia), il film prende le mosse da un paradossale mancato suicidio: il giovane di buona famiglia Anders, lasciando di primo mattino un imprecisato letto d’amore si dirige verso un lago tra i boschi, dove imbottito di pietre cerca vanamente di affogare. Da subito il regista Joachim Trier mette le cose in chiaro, rivelando in modo autonomo e subliminale tutti i presupposti esistenziali a venire già in apertura. Seguono passaggi caratteristici del racconto: visita nostalgica al vecchio amico intellettuale, pacificato in matrimonio con prole nell’accettazione dell’ipocrisia domestica con playstation, latore di ragionevoli buoni consigli respinti al mittente; colloquio di lavoro presso editore al passo coi tempi mandato a monte per eccesso di sincerità; discorsi origliati al bar – al posto del Café de Flore una sorta di minimale area di ristoro pseudo Ikea – riguardanti le solite cose rassicuranti che garba alle donne raccontarsi: lavoro appagante, buon cibo, palestra e benessere, figli biondi in salute, una bella casa, viaggi esotici, avventura quanto basta, cultura generica in musei, scarpe e accessori, essere amate. Proprio lì, nell’incomunicabilità ormai palese con il macchinario onnicomprensivo che muove il vivere sociale, nel giogo subdolo e ruffiano del dover essere partecipe, si consuma la frattura “apollinea” tra Anders e ciò che lo circonda. Famigliole astrattamente felici, passeggini e frasi fatte, l’idea edulcorata di futuro, fino al patetico incontro con la sorella: là fuori di te importa niente a nessuno. Ed è reciproco, almeno così vorrebbe Anders.
L’elemento dionisiaco, nella sua accezione dapprima ebbra, poi sacrificale e distruttiva, prende le mosse dopo un lungo soliloquio mnemonico, flanerie attraverso i luoghi della città moderna al tramonto. Una scuola di musica con giovinette alle prese con gli archi, le vie affollate del centro, quel parco in declivio così ben tenuto, fiore all’occhiello del relax nordico (“finché sei estraneo, si è amici solo a parole”). Al crepuscolo però si manifesta appieno tutto il carisma in gabbia del personaggio, quel residuale magnetismo fatto di glorie giovanili, femmine scopate a dovere e vecchi flirt sottaciuti, piaceri arraffati per poi essere gettati nel cesso della cronaca amorosa, ferite e disavventure passate che egli avrebbe potuto esibire come medaglie ovunque invece di mostrare il costato; ora null’altro che materiale per sarcastici aneddoti, astuto pietismo femmineo e memorialistica cinica idonea all’estenuante intrattenimento presso feste private. Anders ci va per uscirne pieno di denaro rubato dal guardaroba, con i pensieri rivolti al vecchio spacciatore di fiducia e all’ultima notte di furore prima di mandare tutto affanculo. Dopo l’ennesimo tentativo di rintracciare telefonicamente il suo amore perduto – null’altro che estrema richiesta di aiuto, alla quale è il primo a non credere – la vicenda prende una piega drammatica, seppure ben giocata in giovanilistico divertimento da cocktail bar, club, donne, sballo e cazzate, facciamo l’alba, ultimo bagno tutti nudi in piscina. Anders resta fuori a guardare, vestito.
“Sono un perdente”. Dichiararlo freddamente, lucidamente senza autocommiserazione e patetismi sociologici, ad una fanciulla compiacente il sabato notte come allo specchio, nei nostri tempi competitivi, nell’opulenta e ordinata Oslo del XXI secolo, colpisce ben più forte l’ignaro spettatore abituato al lieto fine e a tutti i successi camuffati da sconfitte dall’intrattenimento contemporaneo; anche rispetto all’elegante reticenza parigina di Malle, ai suoi drammi intellettualizzati, alle stilisticamente ineccepibili pose Nouvelle Vague e a tutte le sovrastrutture estetizzanti già presenti nel testo di Drieu, Oslo, 31. August rappresenta uno scacco inatteso. Joachim Trier, grazie anche alla superba prova del suo attore prediletto Anders Danielsen Lie e al rigore formale di una regia puntigliosa quanto “collaterale”, riesce nell’impresa di spogliare libro e film dal nobile corredo, per fare viaggiare la storia in ritmi sincopati, tra boschi e tangenziali, silenzi e sospensioni improvvise, voci che sono pensieri, pensieri poi ritratti, protesi d’assenze, traffico e natura, techno e musica classica, attraverso i colori sempre più realistici delle ore che passano. Una sola giornata del nostro tempo, del nostro vivere qualunque, dalla redenzione in cella rieducativa per il bene del singolo e della società, alle schizofreniche contrapposizioni urbane, fino al baccanale della notte… tutto vissuto da dentro ma letto da fuori; poi un’alba livida coi tram fermi, mattoni rossi strade umide, l’acqua, il verde, la casa finalmente, il ritorno, con le fotografie della felicità alle pareti, che sbiadiscono per sempre.