Un vecchio marpione della politica alla Segreteria di Stato; un Repubblicano, con passato di “eroe del Vietnam, al Pentagono; un uomo d’affari, ex economista clintoniano, al Tesoro; un “vecchio amico” a lungo analista della CIA, a Langley… Un vecchio detto americano recita che “per i primi quattro anni i Presidente lavora per essere rieletto, nel secondo Mandato lavora per la Storia”, laddove, però, per “Storia” si deve, probabilmente, intendere che, libero dalle necessarie alchimie pre-elettorali, un Presidente rieletto può, finalmente, gettare la maschera e mostrare il vero volto della sua politica. Ed il primo segnale in questa direzione è dato dalle nomine nei posti chiave della sua Amministrazione, quelle cui Barack Obama ha provveduto nei primi giorni di gennaio. Nomine in parte attese, in parte sorprendenti. Per nulla sorprendente quella di Jacon Lew al Tesoro. Esce un uomo fidato del sistema bancario, Tim Geithner – che torna , certamente, a Wall Street per cogliere gli “allori” di una politica finanziaria tutta protesa a tutelare, nonostante le promesse di Obama, gli interessi delle grandi Merchant Bank – entra un altro uomo del sistema bancario, proveniente da Citigroup, banca “salvata” appunto dalla prima Amministrazione Obama. Per di più tanto Geithner quanto Lew sono antichi sodali e pupilli di Larry Summers, già Advisor di Obama, già, soprattutto, Segretario al Tesoro di Bill Cinton, l’uomo che realizzò la deregulation bancaria che ha avviato la spirale speculativa nella quale ci troviamo ancora avviluppati. Impresa alla quale l’allora giovane Jacob collaborò attivamente in qualità di Special Assistente del Presidente.
Foggy Bottom, Langley, Pentagono. Il futuro in tre mosse.
Attesa era, certo, anche l’indicazione di J.F.Kerry a Foggy Bottom. Si trattava,in primo luogo, di pagare un debito: il vecchio Kerry è stato infatti uno di principali padrini politici del “giovane” Obama, non a caso lo lanciò sui media internazionali quando, nel 2004 a Boston, chiamò a sorpresa il semisconosciuto deputato di Chicago a tenere il discorso di apertura che lanciò la sua, disastrosa, sfida a George W. Bush. Inoltre il cambio della guardia alla Segreteria di Stato, via la Clinton entra Kerry, permette ad Obama di dare una soluzione alla ambiguità della sua politica estere degli ultimi quattro anni. Hillary infatti si era spesso trovata in netto contrasto con l’entourage più vicino al Presidente, rappresentato in prima persona dal vice Joe Biden, dietro al quale, però, si stagliava l’ombra, ingombrante, della First Lady Michelle. Contrasti di linee strategiche generali e, in particolare, su alcune delle questioni roventi sul tavolo dello Studio Ovale. Dai rapporti con la Cina all’attenzione da prestare agli scenari europei; dal ruolo, più o meno defilato, più o meno influenzato da Parigi e Londra, da assumere nella gestione delle “Primavere Arabe”, a tempi e modi dell’exit strategy in Ira. Senza dimenticare, poi, l’Afghanistan, con la Clinton schierata dalla parte del generale McCrysthal, prima, di David Petraeus poi, che patrocinava l’idea di un “surge” afgano, ovvero un incremento delle forze e dell’azione militare su modello di quella che – pronubo l’allora Presidente George W. Bush – aveva ottenuto eccellenti risultati in Iraq sotto il comando dello stesso Petraeus; e Biden & co. che invece propugnavano un graduale, e il più possibile rapido, disimpegno, affidandosi sempre più ad azioni di intelligence e ad operazioni mirate volte a colpire ed eliminare i capital ebani ed i leader di Al Qaeda. Sappiamo come è andata a finire: McCrysthal è uscito di scena sbattendo la porta, dopo un’intervista di fuoco su “Rolling Stones”; Petraeus, più politico e diplomatico – è il grande “intellettuale” del Pentagono – ci ha provato, ma è stato prontamente silurato con il vecchio, sempre buon sistema pretesco del promoveatur ut admoveatur, richiamato a Washington e promosso a capo di Langley. Da dove, per altro – con Obama appena riconfermato, nel novembre scorso, alla Casa Bianca – il generalissimo è stato, con sospetto tempismo, sfrattato brutalmente in forza di uno scaldaletto a sfondo sessuale scoperto, guarda caso, dagli uomini dell’FBI… sfratto che ha permesso al sorridente Barack di insediare a capo della CIA un suo fedelissimo, John O. Brennan, con venticinque anni di esperienza come analista di Langley per il Vicino Oriente ed il Sud Est Asiatico. Brennan che è, notoriamente, un grande e convinto fautore delle “operazioni coperte”, volte a ridisegnare il quadro geopolitico generale delle “aree calde”, agendo attraverso il “sostegno” a rivolte interne capaci di provocare i necessari Regime Change, nonché attraverso gli alleati di area – in Medio Oriente, ad esempio, sauditi e Qatar, ed anche la Francia perennemente afflitta da, malriposte, ambizioni di grandeur – evitando il diretto coinvolgimento militare. Strategia, per altro, perfettamente condivisa, oltre che da Kerry, anche dal nuovo Segretario alla Difesa, Chuck Hagel.
Chuck non piace a Israele, ma fa felici gli Arabi
Una nomina, quella del vecchio Hagel al Pentagono, che a tutta prima potrebbe apparire spiazzante. Infatti è, come accennato un Repubblicano, un veterano pluridecorato del Vietnam, un uomo d’affari multi-milionario ed ex senatore del Nebraska dal 1996 al 2008. Per di più un “antico reaganiano”. Se si guarda, però, fra le pieghe della vita pubblica – ricca e complessa – del Nostro, si scoprono alcuni particolari davvero molto interessanti. Innanzi tutto, da senatore, è stato molto critico, dopo un iniziale appoggio, con la politica di George W. Bush in Afghanistan ed Iraq. Un’evoluzione che l’ha portato a divenire convinto assertore non solo del disimpegno da quelle aree, ma anche dell’evitare, per il futuro, il diretto coinvolgimento di truppe statunitensi dai conflitti, privilegiando la strategia indiretta sempre caldeggiata da Biden e, oggi, presumibilmente egemone a Washington con Kerry a Foggy Bottom, Brennan a Langley e, appunto, lo stesso Hagel al Pentagono. Inoltre il nuovo Segretario alla Difesa, presenta un altro paio di caratteristiche davvero interessanti. In primo luogo è personaggio palesemente malvisto da Israele, o meglio dall’attuale Governo israeliano. Numerose sono state infatti in passato le occasioni in cui il senatore Hagel ha preso palesemente le distanze dalla politica di Gerusalemme e, soprattutto, da quella portata avanti da Bibi Netanyahu. Per ovvia proprietà transitiva è, invece, persona probabilmente gradita ad un certo establishment arabo – i Banu Saud e l’Emiro del Qatar in testa – che l’Amministrazione Obama sta favorendo, ed al quale si sta appoggiando nel complesso Risiki geopolitico innescato in magre e Medio Oriente dalle Primavere Arabe, e che oggi trova il suo nodo più complesso nella questione siriana. Un Gioco che ha, come posta, l’indebolimento progressivo di Teheran, e il ridisegno degli equilibri complessivi di tutto il Great Middle East. Un ridisegno che, però, sta decisamente favorendo i sunniti e, soprattutto, gli ambienti più radicali – Fratelli Musulmani e salafiti – appoggiati da Riyadh, con ovvio sconcerto di Israele, che teme di passare dalla padella iraniana alla brace araba.
Un Congresso Arlecchino
Per altro, la nomina di Hagel alla Difesa ha, una volta di più, sottolineato il caos che regna in campo repubblicano. Una vera e propria frammentazione del vecchio Grand Old Party che ha impedito a questi di cogliere la storica occasione di riconquistare, nel novembre scorso, la Casa Bianca, con Obama ai minimi storici di popolarità, e tutti gli indicatori economici che arebbero dovuto favorire ampiamente il candidato repubblicano. Occasione sprecata sia per lo scarsissimo appeal di Romney, sia per la frantumazione dello schieramento conservatore. Che è sì riuscito a conquistare la maggioranza alla Camera, ma che anche qui rivela, giorno dopo giorno, la sua mancanza di unità. Come si è rivelato a fine 20012 con la questione del rischio default el Bilancio e la nuova tassazione imposta da Obama, che ha visto i Repubblicani, in teoria maggioritari, spaccarsi fra gli oltranzisti anti-tasse dei Tea Party, e un certo establishment più preoccupato di dialogare con la Casa Bianca.
D’altro canto, è proprio la foto di gruppo del nuovo Congresso statunitense che ci po’ aiutare a comprendere le difficoltà in cui versano i Repubblicani. Una foto non solo multicolore, ma anche caratterizzata da forti, fortissimi contrasti cromatici. Una foto dove il”bianco” tende a scomparire. Infatti, per la prima volta, i deputati “bianchi” sono in netta minoranza, soverchiati dalla marea montante non tanto degli afro-americani, certo in crescita nell’età “dell’abbronzato” Obama, quanto dei latinos e degli asiatici. Inoltre il 19% del Congresso è formato da donne – 101 in tutto, ben 20 al senato, di cui 16 Democratiche – e notevole è anche la presenza di esponenti delle lobby Gay. Entrano, poi, sempre più esponenti di religioni “altre” rispetto al già variegato mondo delle confessioni cristiane: non solo ebrei, da sempre presenti, ma anche islamici e persino un hindu ed un buddhista…. In apparenza una serie di casi curiosi. E così sono stati per lo più trattati dai, distratti, Media europei. In realtà il segno, tangibile e più appariscente, della “mutazione genetica” in atto nel Corpo degli States. Che, certo, sono sempre stati un Grande Paese formato da un insieme di minoranze, ma che oggi vedono queste minoranze non più semplicemente reclamare il loro posto al sole, ma occuparlo con decisione. Divenendo classe dirigente. In tutti i campi: in quello economico e culturale prima, in quello politico oggi. Per oltre 25 anni l’America, da Reagan a George W. Bush, è stata “The Right Country”, dominata da una maggioranza bianca, cristiana, specialmente protestante, conservatrice. Una maggioranza che, oggi, non esiste più. Una mutazione della quale Barack Obama – un “nero” figlio di ragazza bianca ricca del Kansas e di uno studente kenyota , con persino un’oncia di sangue indiano nelle vene, nato alle Hawaii e cresciuto in Indonesia, cristiano, oggi, non si sa, però di quale confessione, e forse educato, da ragazzo, in una madrasa islamica – è il perfetto rappresentante simbolico. Un mondo che Partito Repubblicano, troppo preso dai propri contrasti interni e carente di una vera leadeship, non riesce a comprendere e tantomeno intercettare. Con il rischio, per il futuro, di diventare il partito della “minoranza” bianca, cristiana, ricca. Condannandosi, così, alla subalternità e alla irrilevanza.