“Una volta credevo che il contrario di una verità fosse l’errore e il contrario di un errore fosse la verità. Oggi una verità può avere per contrario un’altra verità altrettanto valida, e l’errore un altro errore” (Ennio Flaiano)
A prima vista, le piazze che hanno monopolizzato l’attenzione pubblica nell’ultimo fine settimana non hanno che un tratto in comune: il colore giallo. Giallo come l’impermeabile di Greta Thunberg, emblema di un movimento internazionale capace di portare a manifestare centinaia di migliaia di ragazzi. Giallo come i gilet catarifrangenti che in Francia giungono al XVIII atto, segnato questa volta da infiltrazioni dei black bloc e pesanti strascichi di violenze e polemiche.
Due proteste che non potrebbero essere più diverse di così, assicurano gli osservatori.
Da un lato la speranza dei giovani risvegliati, la piazza colorata e festante benedetta dal coro unanime della stampa e delle istituzioni. Dall’altro la rabbia degli sconfitti dalla globalizzazione, il fumo di auto e negozi in fiamme che si innalza in una coltre di sdegno. I “domani che cantano” e gli ieri aggrappati a certezze troppo vecchie.
Studenti e gilet gialli, da par loro, si guardano in cagnesco. O perlomeno lo fanno i rispettivi sostenitori sui social, perché quello in corso è solo l’ultimo atto di una polarizzazione che ormai investe qualsiasi ambito del politico, opponendo due fazioni quanto mai disomogenee al loro interno ma abbastanza riconoscibili negli assetti generali. Chiamiamoli populisti ed elitisti, o sovranisti e liberal, la sostanza non cambia.
Nel gioco delle appropriazioni identitarie, l’ambientalismo passa per essere uno dei cavalli di battaglia dei progressisti illuminati contro i “deplorevoli” di clintoniana memoria.
In Francia il filosofo Jean-Claude Michéa, socialista libertario e apologeta della rivolta in gilet jaune, ha coniato un termine per definirli: è la gauche kérosène, cioè l’élite che vive nelle ZTL urbane tra viali alberati e lunghe piste ciclabili e si sposta soltanto in aereo, senza tuttavia rinunciare a puntare il dito contro i catorci inquinanti dei plebei, rei di non volersi convertire alla mobilità sostenibile per mancanza sia di mezzi finanziari che di alternative trasportistiche.
Sebbene la protesta dei gilet gialli non sia davvero riconducibile a un unico fattore coagulante, è degno di menzione il fatto che a dar fuoco alle polveri lo scorso novembre sia stato il rincaro dei carburanti (+14% sul gasolio e +7% sulla benzina) deciso dal governo come misura anti-inquinamento, insieme a una stretta sulle revisioni suscettibile di falcidiare metà del parco auto francese.
Qualunque cosa si pensi di ciò che spinge decine di migliaia di persone a scendere in strada ogni settimana da ormai cinque mesi, è fuori di dubbio che la loro mobilitazione ponga una domanda cui sempre più spesso saremo chiamati a rispondere: chi pagherà il costo della transizione ecologica?
Smetti di incolpare l’uomo della strada: l’”ecobuonismo” non salverà il mondo
Due anni fa, dalle colonne del Guardian, Martin Lukacs aveva lanciato un avvertimento al mondo ambientalista: smettiamo di pensare ai cambiamenti climatici come al risultato di una sommatoria di responsabilità individuali.
Ѐ il neoliberalismo – sosteneva l’autore – a indurci a credere che il nostro personale stile di vita abbia un’influenza decisiva sulla salute del pianeta. Ma non è così vero.
Scegliere lampadine a basso consumo, acquistare elettrodomestici ecocompatibili, mangiare verdure biologiche o installare un pannello solare sul tetto sono azioni che gratificano chi le compie ma non incideranno mai tanto da scongiurare il peggio, in assenza di un decisore pubblico che obblighi le grandi aziende a farsi carico di ciò che i privati cittadini – per quanto virtuosi essi siano – non possono sostenere.
La tesi è tutt’altro che peregrina. Nello stesso 2017 uno studio della Union of Concerned Scientists ha provato a quantificare le responsabilità dei maggiori gruppi economici nella crisi ecologica in atto. I risultati sono impressionanti: alle emissioni delle 90 aziende più inquinanti del mondo si deve quasi il 50% dell’aumento di temperatura, il 57% delle emissioni di Co2 e il 30% dell’innalzamento del livello dei mari registrati dal 1880.
Si tratta di stime ragionevoli, secondo gli scienziati, considerando che quasi due terzi delle emissioni di anidride carbonica e metano possono ormai essere tracciate fino all’origine.
Solo poche settimane fa, del resto, l’Ispra ha ricordato che il riscaldamento e l’allevamento intensivo inquinano più di auto e moto e sono responsabili di oltre metà delle emissioni di Pm 2,5 e Pm 10. Per dare un’idea delle proporzioni, dal riscaldamento deriva il 38% del particolato, dagli allevamenti il 15,1%. Lo stoccaggio degli animali in stalla e la gestione dei reflui pesa quindi più dei veicoli leggeri (9%) e addirittura più dell’industria (11,1%).
Ma allora perché tutto il dibattito in corso sembra ridursi a una contesa sulla liceità morale di circolare con un’utilitaria euro 4?
In parte si spiega senz’altro con l’entità degli interessi in gioco. Colpire una massa indistinta di “inquinatori” può essere più semplice – specie in questi tempi di crisi – che stanziare miliardi per l’efficientamento energetico o rimettere in discussione una filiera produttiva ipertrofica come quella della carne industriale, con quel che ne deriverebbe se si dovessero toccare sul serio gli aspetti occupazionali del problema o la sacralità delle leggi di mercato che tutelano i giganti del Big Meat non meno di quelli del Big Oil (a scanso equivoci: no, ridurre i consumi di carne non implica di necessità “diventare tutti vegetariani”).
Ma esiste una dimensione tutta ideologica della questione. Il filosofo Andrea Zhok riprende il filo del ragionamento di Lukacs criticando da una prospettiva ecosocialista l’imperante “ecobuonismo”: «rimpallandosi dilemmaticamente tra sconsolati giudizi su una specie malvagia, e appelli alla buona volontà individuale, i dibattiti sul degrado ecologico possono serenamente procedere all’infinito, senza che assolutamente nulla cambi».
In questo senso, «l’ambientalismo liberale benpensante ha davvero funzionato egregiamente come arma di distrazione, facendo convergere le energie morali dei ceti più acculturati in una direzione politicamente innocua, che taceva accuratamente ogni legame tra ordinamento economico capitalistico e crisi ambientale».
Intendiamoci, il punto non è dimostrare l’inutilità pratica dell’impegno individuale. Un’opinione pubblica cosciente e ben disposta è la premessa per qualsiasi soluzione complessiva, e preoccuparsi di “fare la propria parte” è comunque indice di un benefico apporto alla comunità in cui si vive. Senza contare che molte scelte personali hanno risvolti non trascurabili per l’ecosistema, per il proprio benessere e per le economie locali.
Quello che però non si può tacere, in una prospettiva globale, è che un singolo sversamento da una petroliera nel Golfo del Messico vale in negativo più di quanto migliaia di anni della nostra raccolta differenziata potrebbero mai fare in positivo per la salute del pianeta.
Aver dimenticato questo aspetto rivendicativo a beneficio di una visione parcellizzata e autoreferenziale ha alimentato persistenti illusioni sulla natura dei cambiamenti climatici: questa volta “pulire davanti a casa tua” non basterà a far sì che tutto il mondo sia pulito, né tantomeno a ripagare i costi di adattamento alle mutazioni che il pianeta sta attraversando.
Né con Greta né contro Greta: può esistere un “ambientalismo del 99%”?
Diciamoci la verità: se l’ambiente è malato, l’ambientalismo non se la passa certo meglio. In tempi ormai lontani, eventi come la nube tossica di Seveso, il disastro della “mezzanotte e cinque” a Bhopal, le conseguenze visibili della tragedia di Chernobyl, del disboscamento dell’Amazzonia o dello sbiancamento della Grande barriera corallina hanno contribuito all’emergere di una coscienza ecologica di massa che nel nostro Paese si è sostanziata in vari modi, dalle proteste antinucleari a Montalto di Castro al successo del movimento di Slow Food contro le sofisticazioni alimentari e l’agricoltura imbottita di pesticidi.
Ma la fase dell’ambientalismo di massa – a parte estemporanee fiammate, come quella dei referendum del 2011 – si è chiusa perfino prima che la crisi del 2008 rovesciasse fin dalle fondamenta il rapporto tra governanti e governati. La triste parabola dei partiti verdi, piombati nell’irrilevanza o rifluiti nell’alveo della più stereotipica sinistra radicale, è solo l’indicatore più visibile di questo declino.
In mano ai ceti neoliberali egemoni dopo la fine della guerra fredda e all’agenda dei loro media, la questione ambientale è diventata sovente un orpello per imbellettare discorsi vuoti di sostanza, se non proprio una cinghia di trasmissione di prebende assessorili o di supercazzole pubblicitarie all’insegna del greenwashing.
Quanto il discorso di Greta Thunberg si discosti o meno da questo ambientalismo liberale, gonfio di richiami morali ma povero di rivendicazioni politiche, sarebbe argomento da approfondire. Quel che si può dire per ora è che la mobilitazione dei Fridays for Future è stata incasellata nel blocco dell’”antisovranismo” e ha riscosso attestati di piena solidarietà da istituzioni e mezzi di comunicazione più allineati con l’establishment.
Tralasciando le critiche triviali rivolte alla sedicenne svedese sul piano personale, non c’è dubbio che qualche domanda sul “fenomeno Thunberg” come evento mediatico sia lecito avanzarla. Ma anche al di là di questo, è lecito chiedersi quanto possa giovare l’attuale ondata di emotività attorno a un tema complesso dove i contenuti tecnico-scientifici sono dirimenti, e a proposito del quale il mondo ambientalista si è sempre fatto forza proprio della sua capacità di produrre una riflessione critica e competente.
Detto in altre parole, il rischio è che – una volta passata la sbornia di interviste e candidature al Nobel – la crociata verde dei fanciulli si esaurisca senza lasciare traccia duratura di sé, e magari alimentando ulteriore scetticismo attorno alle mobilitazioni sui temi ecologici in genere.
Dove sbaglia, invece, chi pratica l’antigretismo militante senza fornire alternative spendibili? Alain de Benoist ha notato a ragione come soprattutto la destra tenda a disinteressarsi alle idee e ricondurre tutto alle persone: «I suoi nemici non sono mai sistemi e neppure veramente idee, ma categorie di uomini trasformate in altrettanti capri espiatori (gli ebrei, i “meteci”, i “banchieri”, i massoni, gli stranieri, i “trotzkysti”, gli immigrati e via dicendo). La destra fa un’enorme fatica a capire un sistema globale sprovvisto di soggetto: gli effetti sistemici della logica del capitale, i vincoli strutturali, la genesi dell’individualismo, l’importanza vitale delle minacce ecologiche, la spinta interna della tecnica».
L’elenco di accuse più e meno circostanziate rivolte a Greta Thunberg è la plastica dimostrazione di tutto ciò, ma è anche la spia di una più generale incapacità di discernere la sostanza dei problemi – in questo caso, la crisi ecologica del pianeta – dalla forma che il discorso delle élites dominanti vi imprime.
Chiunque, da destra o da sinistra, intenda contestare l’ipocrisia, l’inefficacia e l’iniquità di fondo dell’ambientalismo istituzionale dovrebbe porsi il problema di come declinare la riflessione in modo da assicurare al cittadino comune che il costo della transizione non peserà tutto intero sulle sue spalle, ma verrà saldato in proporzione anche dai grandi inquinatori che portano le responsabilità più ampie dell’attuale degrado ambientale, a tutti i livelli.
Non c’è solo la questione di quel che Timothy Morton ha definito l’”iperoggetto” riscaldamento globale, infatti, ma anche i riscontri innumerevoli sul deterioramento della fertilità dei suoli, l’inquinamento di aria e acqua, la progressiva scarsità di risorse idriche in molte aree del mondo, il crollo della fertilità in altre e la scomparsa accelerata di molte specie animali e vegetali nell’ambito della sesta estinzione di massa.
Per rispondere a tutto questo, anche in relazione ad altre problematiche di primo piano come l’immigrazione, serve un ambientalismo che ritrovi sintonia di lessico e concetti con le preoccupazioni della gente comune. Un ambientalismo del 99%, “populista” o in qualunque altro modo lo si voglia chiamare. Che riscopra gli aspetti rivendicativi del pensiero ecologista e sappia indossare all’occorrenza il gilet giallo della protesta.
“…i risultati sono impressionanti: alle emissioni delle 90 aziende più inquinanti del mondo si deve quasi il 50% dell’aumento di temperatura, il 57% delle emissioni di Co2 e il 30% dell’innalzamento del livello dei mari registrati dal 1880”. Questa è una bufala che non me la credo manco morto!