Spesso ai grandi registi capita di scrivere storie che riescono a sviluppare solo quando hanno ormai raggiunto una certa notorietà. Quando si inizia a diventare famosi bisogna rispettare scadenze, presentare progetti “credibili” a chi vuoi ti dia un pacco di soldi per portarli avanti e metterli in piedi. Sono celebri nel mondo della comicità americana gli sketch su incontri tra artisti (scrittori, band, sceneggiatori, ecc.) e i loro autori, con uno schema che vede i primi presentare ai secondi i loro “piani”, poi regolarmente stravolti o fatti accantonare: “E’ una bella idea! Però non è il momento.”
L’ultima fatica dei fratelli Cohen, La Ballata di Buster Scruggs, 6 cortometraggi condensati in 2 ore e 15 minuti di pellicola, sembra aver seguito un percorso di gestazione simile. Sono gli stessi Joel ed Ethan (https://www.latimes.com/entertainment/movies/la-ca-mn-ballad-of-buster-scruggs-coen-brothers-20181114-story.html ) a raccontare in una conferenza stampa che non hanno mai nemmeno pensato di concretizzare le loro mini-storie fino ad almeno 8-10 anni fa, “quando abbiamo iniziato a pensare: beh, forse possiamo farcela.”
Fortemente influenzati dalle pellicole di un Maestro del cinema italiano, Sergio Leone, hanno iniziato a lavorare per dare vita a quel progetto fino ad allora rimasto alla fase embrionale. Per capire quanto anche questa volta abbiano còlto nel segno (dopo il celeberrimo adattamento cinematografico di “Non è un paese per vecchi” dal capolavoro del gigante della letteratura Cormac McCarthy) basta dire che una di queste sei storie, All Gold Canyon, è un cortometraggio basato interamente sull’omonimo racconto di uno dei più grandi cantori dell’America profonda e grezza, che lascia il sapore di whiskey scadente e fagioli riscaldati in pentola: il marinaio, sindacalista, reporter e scrittore Jack London. Nessuno meglio di lui ha saputo raccontare la corsa all’oro, il rapporto di sussistenza tra essere umano e natura incontaminata: se si vuol capire come ci si sente a prepare un fuoco mentre si è intorpiditi dalla morsa del freddo, come sia cercare un riparo per superare la notte con i vestiti zuppi dalla pioggia, se si vuol capire che segni lasci sul volto e nell’anima l’America del Klondike, la scelta migliore è affidarsi a Jack London come narratore.
Il cortometraggio dei fratelli Cohen in onore di John Griffith London (in arte Jack London) ripercorre fedelmente il racconto da lui scritto. Le immagini proiettate dalla mente durante la lettura di quelle righe si sovrappongono perfettamente a quelle presentate sullo schermo dal geniale duo americano. La vallata spaccata dal corso del fiume dove il protagonista poggia le sue vecchie ginocchia per immergere i piatti adibiti al setaccio per dividere la terra dall’oro, il metodo di ricerca del prezioso materiale, la felicità di chi, giorno dopo giorno, raccoglie frammenti d’oro sempre più grandi, avvicinandosi alla fonte. Ma l’America nelle sue foreste nasconde sempre molte insidie, pronte a manifestarsi quando tutto sembra andare per il verso giusto. E per il vecchio portare a casa quel dannato, prezioso, luccicante metallo incastonato nella roccia sarà più difficile del previsto.
All’interno dei confini statunitensi narrati da Jack London e ridisegnati egregiamente dai Cohen non c’è spazio per il lieto fine e, quando c’è, non è mai assoluto. Ha il sapore di un brandello di vita: quello che ti strappa sempre un sorriso malinconico tipico di chi accetta la sua condizione, cercando di prenderne il meglio, senza lamentarsi troppo.