Alessandro Barbera ha curato e raccolto in volume per le edizioni L’Arco e la Corte (pp.130, €15) gli scritti sul ’68 di Julius Evola. In una lucida e pregevole prefazione il curatore non solo dà conto delle circostanze che portarono il filosofo tradizionalista a intervenire su varie testate, dal Borghese al Conciliatore al Roma, tra il 1968 e il 1971, ma soprattutto ricostruisce la posizione dottrinaria di Evola su questo fenomeno che attrasse anche alcune frange e alcuni intellettuali della destra radicale (tra questi citiamo Giano Accame e Pino Tosca). L’occasione che spinse il direttore del Borghese, Mario Tedeschi, a richiedere la messa a punto di Evola fu la rottura con Giano Accame che aveva espresso in un paio di articoli (riportati in appendice insieme al testo di Mario Tedeschi e a un intervento di Adriano Romualdi) attenzione e comprensione per i giovani che contestavano il “sistema”, trovando insospettate analogie tra l’estrema destra e l’estrema sinistra. Com’è noto, il sogno di una unità generazionale contro il sistema parve concretarsi il 1° marzo a Valle Giulia dove gli studenti, senza distinzioni di destra e di sinistra, si scontrarono con la polizia. Ma tale sognò si spense ben presto, quando, quindici giorni dopo, i militanti missini capitanati da Giorgio Almirante intervennero violentemente all’Università di Roma. Come scrive Barbera, “a determinare l’inversione di tendenza provvide l’allora segretario del MSI Arturo Michelini che, per motivi mai del tutto chiariti, spinse i giovani del suo partito verso la rottura violenta. Si trattò nell’immediato di un clamoroso errore, che ebbe come conseguenza pratica l’estromissione della destra dalle università per un decennio.” Su questa illusione di una convergenza tra gli opposti nacque in alcuni ambienti della destra radicale il mito dell’”occasione mancata”. La polemica di Evola è diretta principalmente contro questa illusione. Infatti, nei suoi articoli, Evola cerca di rettificare i punti di vista e la terminologia (ad esempio, rileva come sia più giusto parlare di rivolta contro il mondo moderno, anziché di contestazione del sistema); rimarca le differenze tra una visione tradizionale e quella anarchica e nichilista propria dei contestatori; esamina i loro riferimenti culturali, in primo luogo Marcuse, cui peraltro riconosce di aver saputo cristallizzare “un confuso impulso di rivolta” e di aver dato un contributo alla critica delle società industrialmente avanzata, senza però indicare uno sbocco consistente né convincente, stante la sua concezione “aberrante” dell’uomo ispirata a Freud e all’anarchismo. Il giudizio conclusivo di Evola sul ’68 è che si tratti di “una rivolta legittima, ma senza una controparte positiva e senza speranze.” Per questo, nota il curatore, “Evola invita la gioventù neofascista a non confondere in un calderone unico la rivoluzione di sinistra con quella di destra, data l’assoluta divergenza degli obiettivi finali.” A questo proposito, è riportato da Barbera, in una nota della prefazione, un gustoso aneddoto: alcuni esponenti del movimento studentesco, orientati a destra, erano andati a trovare Evola per avere uno scambio di vedute. Ai suoi occhi, questi giovani “nazi-maoisti”, come allora venivano etichettati, denotavano “una notevole confusione intellettuale”, tanto che ad un certo punto, infastidito, e forse annoiato, dalle loro argomentazioni trasse da sotto il letto alcune copie di Tex Willer e Nembo Kid che si mise a sfogliare con grande interesse. Una risposta, quella del filosofo, che è una lezione di stile: quasi a dire che, se proprio ad un’utopia ci si voglia richiamare, è di gran lunga preferibile e più plausibile Paperopoli, quella del modo dei fumetti, che non la società invertebrata e anodina preconizzata da Marcuse e dalla scuola di Francoforte. Nella postfazione al volume Manlio Triggiani facendo un bilancio del ’68 scrive che “per l’ennesima volta il tempo ha dato ragione a Julius Evola”, poiché la contestazione sessantottina si è rivelata “un fallimento, un movimento pretenzioso che ha lasciato confusione e una finta rivoluzione”. E nota, rifacendosi al detto proverbiale di Jonesco “diventerete tutti notai”, che i giovani contestatori, che giocavano alla rivoluzione, sono poi diventati in gran parte “protagonisti del riflusso”, dirigenti, senatori, professori, giornalisti, tutti borghesi incensati e ben pagati, mentre in piccola parte hanno imboccato la via senza uscita del terrorismo degli anni di piombo. Il che è certamente vero sul piano umano ed esistenziale. Tuttavia, poiché in ogni fenomeno storico c’è del positivo, non si può negare che la contestazione fece emergere in tanti giovani il vuoto spirituale, la mancanza di un senso profondo della vita, propiziati se non causati dalla società dei consumi, e che, come scrive Marcello Veneziani, “la maggiore sensibilità nei confronti della natura e delle origini, la critica al progresso e al degrado, resta uno dei lasciti migliori del Sessantotto.”
*Scritti sul ’68 di Julius Evola (a cura di Alessandro Barbera), Arco e la Corte