13 Gennaio 1960. La poetessa Sibilla Aleramo muore a Roma. Il suo vero nome era Rina Faccio. Giovanissima, lavorò nella fabbrica diretta dal padre; un collega di lavoro la violentò (lei aveva sono 15 anni) e, rimasta incinta, sposò forzosamente il suo violentatore. Forse fu quella la molla che la spinse al femminismo. Si batté per l’emancipazione della donna e per il diritto al voto; lo fece scrivendo sulla stampa socialista e divenne anche direttrice del settimanale “L’Italia femminile”.
Entrò quindi nel giro degli intellettuali progressisti prima della fine dell’Ottocento; a quel tempo si legò sentimentalmente ad un poeta.
Qualche anno dopo, a Novecento iniziato, quando entrò nella redazione della “Nuova Antologia”, lasciò marito e figlio per un nuovo amante, Giovanni Cena, che della rivista era il capo redattore.
Con Cena visse per dieci anni; fu lui a spronarla alla scrittura di quel romanzo autobiografico, “Una donna”, che la rese famosa in Italia e all’estero.
Nel 1916, ebbe una fitta corrispondenza con Dino Campana, lo squattrinato e sfortunato poeta, “uomo dei boschi” di Marradi, dopo aver letto i suoi “Canti Orfici”.
Lo volle incontrare. Lui non aveva letto il suo libro; la loro corrispondenza era stata poetica e Campana non prestava fede alle chiacchiere su quella donna libera che circolavano tra i “cari sciacalli dell’ambiente fiorentino” come li definiva lui.
Si dettero appuntamento a Firenzuola, lei lo raggiunse in treno, sull’Appenino; subito s’innamorarono.
Dino poeta solitario e visionario che aveva già provato il manicomio e lei così diversa, frequentatrice di salotti mondani, amica di futuristi, con alle spalle già molti amanti famosi e no, uomini e anche amori lesbici.
Sibilla liquidò l’amante del momento, lo scrittore fiorentino Raffaello Franchi.
Fra la Aleramo e Campana fu un amore passionale, tormentato e drammaticamente violento, fra abbandoni e riprese, fatto di poesia e di botte; con Dino che temeva di perderla, non riuscendo ad immaginare di essere l’ultimo degli amori di Sibilla passata per le braccia anche di Vincenzo Cardarelli, di Giovanni Papini (con i suoi “grandi occhi verdi”), di Umberto Boccioni, di Basilio Cascella, del poeta Giovanni Boine, di Fernando Agnoletti e dei tanti sconosciuti.
La sfortuna colpiva ripetutamente Dino Campana che nel settembre 1917 – guerra mondiale in corso – finì anche in carcere a Novara, sospettato di essere una spia.
Non aveva forse dedicato i suoi “Canti Orfici” a Guglielmo Secondo, Imperatore dei Germani nel 1915?
Riuscì a far avere un telegramma a Sibilla che, amica di un magistrato, a sua volta riuscì a farlo uscire dal carcere.
Ma ormai la fine era vicina. Passarono solo pochi mesi. Nel gennaio 1918 Campana scrisse alla Aleramo dal Manicomio di Firenze, quello di San Salvi: “Cara, se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita. Vieni a vedermi, ti prego, tuo Dino”.
Ma Sibilla Aleramo non lo raggiunse mai più, si dedicò ancora alla poesia e a nuovi amori.
Scriverà in seguito il poeta austriaco Stefan Zweig: “Chi non ha veduto Sibilla Aleramo a Roma in quel primo decennio del Novecento, non ha veduto nulla”.
Nel 1919 pubblicò il romanzo “Il passaggio”; dedicò “Endimione” a d’Annunzio, l’amico che la chiamava “Sirocchia” dai tempi della loro frequentazione parigina anteguerra.
E ancora nuovi amori, dall’atleta olimpionico Tullio Bozza al conte Carlo Sforza, ambasciatore a Parigi.
E fu nuovo ritorno in Francia, dopo il tour sessuale tra gli intellettuali locali nel 1913, compreso il vecchio scultore Rodin. E tramite l’antifascista Sforza entrò in quel giro politico, abbastanza superficialmente ma giungendo a firmare il manifesto degli intellettuali antifascisti nel 1925; quello di Benedetto Croce in risposta al “Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni” di qualche giorno prima, lanciato dall’altro filosofo, Giovanni Gentile.
E nonostante che don Benedetto non rientrasse nelle sue simpatie fin dai tempi della sua relazione con il poeta e scrittore Vincenzo Gerace, quando si spinse a scrivere al filosofo napoletano chiedendogli di convincere Gerace a lasciare la fidanzata per lei. Ricevette a sua volta una lettera sdegnata di Croce indignato per essere stato messo in mezzo a storie banali di amorazzi.
Una replica del filosofo che gli costerà la vendetta della scrittrice che mise in circolazione dicerie su di lui a proposito di “corna”.
Ma quella firma in calce al manifesto degli intellettuali antifascisti, unita all’amicizia per un tal Tito Zaniboni che poco dopo fu l’organizzatore di un attentato a Benito Mussolini, gli costarono l’entrata nelle indagini e un arresto per qualche giorno.
Ma, tutto è bene quel che finisce bene…. Sibilla Aleramo diventò rapidamente fascista; negli anni Trenta riuscì ad incontrare Mussolini. Ma anche l’attentatore, lo Zaniboni che in carcere rimase, si vide aiutare la sua famiglia dal Duce che pagò anche gli studi universitari a sua figlia fino alla laurea (ciò non impedì a Zaniboni nell’immediato dopoguerra di diventare Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo).
Dopo la disavventura di quel tiepido antifascismo chiese raccomandazioni a Gabriele d’Annunzio e ancora al poeta, aiuti economici.
Brigò per ottenere il prestigioso (e sostanzioso) Premio Mussolini.
Divenne collaboratrice di riviste fasciste ufficiali come “Cabala” diretta da Nino d’Aroma, federale fascista di Roma.
Dopo l’incontro con il dittatore, che ne rimase affascinato, ottenne anche un sussidio fisso come molti altri scrittori.
La Aleramo scrisse garantendo la sua fedeltà “al Regime in ogni eventualità”, pubblicò lodi sulla bonifica pontina nel volume “Poeti del tempo nostro” e delle città di fondazione di Littoria e Sabaudia scrisse: “Aura di redenzione, aura di fede. Se anche questo solo avesse Benito Mussolini compiuto per il proprio e nostro Paese, resterebbe nella storia quale taumaturgo gigantesco”.
Chiese di potere entrare nell’Accademia d’Italia, ma in ciò non fu accontentata.
E i suoi intrecci amorosi proseguirono, ci fu la relazione con il filosofo Julius Evola e poi, nella stessa cerchia del Gruppo di Ur, con Giulio Parise (di recente l’editrice fiorentina Ponte alle Grazie ha pubblicato “Un amore degli anni Venti. Storia erotica e magica di Sibilla Aleramo e Giulio Parise”).
Poi fu la volta di Salvatore Quasimodo, futuro Premio Nobel concupito quando lui aveva 35 anni e lei già 59, un amore bruciato in un anno, il 1935.
Poi fu l’amore nella sua soffitta romana di via Margutta con il ventenne Franco Matacotta, finito quando lei ne ebbe 70 di anni e lui, a 30 si innamorò di una coetanea.
Tanti amori, raccontanti nei sui romanzi.
Nel dopoguerra, nel 1946, o forse nel 1945, si iscrisse al PCI e divenne la poetessa ufficiale del partito di via delle Botteghe Oscure.
Firmò tutti i manifesti che c’erano da firmare.
Nel 1952 visitò l’Unione Sovietica e ne tornò incantata. Giuseppe Prezzolini, il grande letterato perenne esule tra Stati Uniti e Svizzera, certo non troppo elegantemente, scrisse di lei: “Sibilla, lavatoio sessuale della letteratura italiana”.
Personaggio mondanamente e socialmente interessante. Lasciamo però stare la letteratura e la politica…
FÀNTASTICO PREZZOLINI…