In questi giorni gli Stati Uniti sono scossi dalla notizia che Barack Obama avrebbe praticamente permesso un’invasione sistematica e scientifica della privacy di milioni di cittadini, attuando un vero e proprio Grande Fratello orwelliano giustificato da lui (e dal Congresso) come misura legale e necessaria per la difesa dagli attacchi terroristici. La domanda che gli statunitensi si pongono, sin dai tempi di Bush, ritorna in auge più pressante che mai: è giusto che i governi possano invadere, con la scusa della lotta al terrorismo internazionale, la privacy degli individui, analizzando le loro telefonate, il loro traffico web e, alla bisogna, limitare quest’ultimo in maniera apparentemente arbitraria?
La risposta non è scontata ed è interessante ricordare come, mentre l’opinione pubblica mondiale ignorava totalmente la tematica della libertà di utilizzo dei mezzi tecnologici, qualche decennio fa si sviluppasse nelle università statunitensi (e non solo) un movimento di pensiero piuttosto articolato, la meglio nota “comunità hacker”. Gli hacker, questi sconosciuti. La leggenda vuole che un giorno John Draper, meglio noto come Capitan Crunch, riuscisse a intercettare una linea riservata della Casa Bianca, ad inserirvisi e a lamentarsi con il presidente Nixon dell’assenza di carta igienica a Los Angeles.
I primi hacker erano infatti dediti a questo genere di scherzi, che li fecero diventare piuttosto noti, ma anche temuti. L’epopea degli hacker inizia negli anni ’50, prima della contestazione studentesca, nelle università americane, principalmente il MIT, quando alcuni gruppi di studenti si appassionano ai primi computer. Nasce una vera mania per tutto ciò che riguarda l’allora ristrettissimo mondo della tecnologia. Contestualmente nasce una controcultura vera e propria, basata sulla conoscenza e la condivisione della stessa. In Hacker, gli eroi della rivoluzione informatica, Steven Levy definisce la cosiddetta “etica hacker”, i cui principali aspetti sono il libero accesso alle conoscenze informatiche e il miglioramento del mondo.
Secondo l’etica degli hacker, qualsiasi limitazione di accesso al mezzo informatico è una grossa violazione ed è giustificato il ricorso a tecniche di hacking per aggirare l’imposizione di blocchi. Di fatto quindi, nonostante le semplificazioni giornalistiche, non stiamo parlando di criminali informatici, ma di persone con vastissime conoscenze tecnico scientifiche che in qualche modo non vogliono vedere violata la loro libertà. La lotta per la libertà non solo sul web. Anarchica e poco incline alle regole imposte dall’esterno, la comunità ha dovuto confrontarsi nel corso degli anni con molte problematiche: isolare le mele marce, combattere contro le limitazioni e cercare di incidere sulla società in modo tale che le proprie istanze libertarie fossero riconosciute, anche a livello legale.
Molti membri del mondo hacker hanno preso coscienza che l’impegno politico è basilare per poter raggiungere quella libertà. In particolare è nata una corrente di pensiero, che trova il principale esponente in Richard Stallmann, che salda le libertà digitali alla critica al capitalismo selvaggio e alla società dominata dall’economia. Rivedendo in chiave moderna tutte le teorie sui mezzi di produzione, il diritto d’autore e utilizzando il concetto di comunità, Stallmann ha di fatto creato un sistema di valori che, partendo dall’etica hacker ricopre buona parte degli aspetti del mondo di oggi che, se metabolizzato, potrà in futuro aiutarci a sfuggire al Grande Fratello, dandoci forse un mondo più libero.
@barbadilloit