Compito della politica è porre «in forma» il mondo. Passo preliminare, al fine di conseguire tale obiettivo, stante la lezione di Carl Schmitt, è l’individuazione del nemico. Chi voglia porsi, nell’agone sociale contemporaneo, a tutela delle identità culturali, spirituali ed etniche dei popoli d’Europa, non può avere dubbio alcuno in merito a tale identificazione. Il nemico è rappresentato dal capitalismo finanziario, transnazionale, che ha espropriato i popoli della stessa sovranità politica, attualmente esercitata dalla governance, che sta surrogando, dall’interno, le democrazie rappresentative. La cosa era chiara, fin dagli anni Trenta a molti autori della Rivoluzione conservatrice. Questi colsero nello sradicamento identitario e nell’atomizzazione sociale l’esito del modo di produrre capitalistico e della rivoluzione industriale. Tra i rivoluzionario-conservatori, un ruolo significativo ha svolto l’austriaco Othmar Spann. Lo ricorda Francesco Ingravalle nell’informata e contestualizzante prefazione alla nuova edizione italiana di un importante lavoro del filosofo viennese, Breve storia delle teorie economiche, da poco pubblicato da OAKS editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, euro 22,00, pp. 330).
Spann cambattè durante la Prima guerra sul fronte orientale. Nel 1919 divenne ordinario di Economia politica all’Università di Vienna e, ben presto, fu arruolato nelle file del nascente nazional-socialismo tedesco: ebbe una tessera segreta del partito, non numerata. Partecipò dal 1928 al Kampfbund fondato dal teorico nazista Alfred Rosenberg, con il quale interruppe i rapporti nel 1931. Fondò, poco dopo, l’«Istituto per i ceti». Dalla sua vasta produzione si evince che pur condividendo: «il rifiuto fascista e nazional-socialista della democrazia individualistico-atomistica e del collettivismo marxista, il suo organicismo universalista lo portò molto al di là dei limiti del razzismo […] e del nazionalismo fascista» (p. 15). Per questa ragione, dopo l’occupazione austriaca messa in atto da Hitler, il 13 marzo 1938 venne arrestato dalla Gestapo ed internato a Dachau. A fine agosto fu rilasciato ma gli venne interdetto l’insegnamento. Nel 1945, in conseguenza delle sue esplicite prese di distanza dalle posizioni liberaldemocratiche, venne posto in trattamento di quiescenza. Tali sintetici dati biografici fanno comprendere che Spann fu, prima di ogni altra cosa, un intellettuale libero e coraggioso.
Del suo «socialismo feudale» che, contro ed al di là di ogni pratica totalitaria, difendeva l’autonomia dei corpi intermedi, dei «ceti» destrutturati dall’irrompere della rivoluzione industriale e dalla sua volontà livellatrice, si accorsero in Italia Julius Evola e Carlo Costamagna. Il primo fu assai prossimo, per la concezione dello Stato quale «forma aristotelica» capace di agire anagogicamente sulla materia popolo, alle tesi dell’austriaco e della sua scuola organicista. Il libro che qui presentiamo fu pubblicato in prima edizione italiana nel 1936, dalla casa editrice gentiliana Sansoni. Nel 1932 si era tenuto il congresso di studi corporativi di Ferrara, durante il quale Ugo Spirito si era battuto per la «corporazione proprietaria». Il fascismo si trovava ad un bivio: proseguire, in ambito economico, lungo il percorso liberista tracciato dal ministro De Stefani, oppure realizzare: «la socializzazione dell’economia nazionale […] facendo del fascismo uno sviluppo ulteriore del comunismo?» (p. 9). Questa seconda opzione pareva affermarsi in quegli anni, tenuto conto che Togliatti scrisse il suo «appello ai fascisti» proprio nel 1936, nella convinzione che il fascismo si muovesse effettivamente in tale direzione. Del resto, le scelte verso un’ «economia programmata» erano suggerite dagli scenari internazionali aperti dalla crisi del 1929.
In tale contesto apparve in Italia la, Breve storia delle teorie economiche. In essa, l’autore sviluppa un preciso punto di vista legato alle indicazioni della «scuola organicista di economia», affermatasi tra il XIX ed il XX secolo in opposizione ai precetti del liberismo e del socialismo moderno. Liberalismo e socialismo davano voce al soggetto senza volto della modernità, alle masse metropolitane, atomizzandole o organizzandole in uno Stato Moloch. In esso: «l’unità è imposta agli ‘atomi sociali’ esclusivamente dall’esterno, nella piena consapevolezza […] che l’unità che sorge dall’intimo è legata a fasi ormai trascorse della storia umana» (p. 17). Il filosofo austriaco mirava a riproporre un’antropologia tradizionale e comunitaria. Per dirla con Gentile era cosciente che nell’Io vive da sempre il noi, che nell’individuo è celata la vocazione politico-comunitaria. Cosa ha cancellato tale vocazione naturale? Spann risponde in modo esplicito: il razionalismo moderno. La medesima risposta dei pensatori di Tradizione e del filosofo francese Louis Rougier. Il razionalismo è il padre naturale dell’individualismo liberale, così come dello Stato-macchina. L’antecedente delle posizioni di Spann va individuato nel pensiero di Adam Müller e nel suo «romanticismo politico».
Pertanto, quando Sansoni decise di pubblicare quest’opera di Spann era fermamente convinto che le idee in essa contenute fossero espressione di un atteggiamento anti-individualista che, assieme ad altre elaborazioni teoriche, poteva agire propositivamente nel definire il retroterra culturale del fascismo, pur non coincidendo pienamente con la sua visione del mondo. Più in particolare, si sottolineava che l’anti-individualismo dell’austriaco era di matrice tomista e poteva conciliarsi con le posizioni di Gentile, al fine di costruire lo Stato corporativo. Non è certo un caso che, curatore del libro, sia stato l’economista Giuseppe Pacini Bruguier che, in piena crisi del ’29, partecipò alla stesura di un volume collettaneo significativamente intitolato, La crisi del capitalismo. Ingravalle rileva che motivo centrale delle tesi di Spann debba essere rintracciato nell’esplicitare la consapevolezza teorica conseguita da George Simmel. Questi riteneva consustanziale al capitalismo la tendenza ad atomizzare, a disgregare il tessuto sociale.
Una società, anzi una «comunità», può esistere solo quando i bisogni individuali siano raffrenati dalle norme giuridico-politiche, in funzione dell’affermazione del bene comune. Tale il ruolo essenzialmente ordinatore del sistema dei ceti e delle corporazioni. Anche nella modernità: «il nesso fra ‘individuo’ e ‘società’ è sempre organico perché l’individuo non è fisiologicamente autosufficiente e abbisogna […] della struttura produttiva organizzata» (p. 31). Lo stesso Marx riconobbe che le ‘libertà liberali’ possono realizzarsi soltanto in una comunità di soggetti di pari diritti e dignità. Ciò è possibile quando gli individui condividono una storia, il passato, ed agiscono per un destino comune. Il libro di Spann, oltre che per i contenuti di stretta attualità, si consiglia per la prosa coinvolgente, anche quando tratta di questioni teoriche e o tecniche. Un libro, quindi, ancor oggi giovane.