“Un gioco può essere parte integrante di una cultura, come vero oggetto di apprezzamento estetico, come ammirevole prodotto della creatività umana, come l’arte popolare o uno stile musicale; e, come tale, è altrettanto degno di studio”
Michael Dummett
Come assennatamente sostenne il filosofo inglese, grande appassionato di tarocchi, l’arte della divinazione non è semplice affare di superstizione, d’azzeccagarbugli e di traffici d’imbonitori, ma concerne l’imago, qualcosa avente a che fare con uno stratificato patrimonio di segni. Di simboli. Di ancestrali figure, chissà per quale viaggio temporale giunte sui tavoli di bettole e osterie, per il diletto di vecchi bestemmiatori. “Ti leggo la mano? I fondi del caffè? Un oroscopo personalizzato?” – oppure, più prosaicamente, briscola: Asso di denari. Dunque, è questo un importante indizio: la promiscuità, il passaggio sotto forma di lascito, la sovrapposizione – come nelle architetture o nei decori delle chiese – di veli, talvolta di pietra tal altra di carta pittata, sono funzionali al camuffamento di porte comunicanti coll’ignoto. Difatti Rivelazione è qui parola chiave, per sciogliere l’incrostazione spuria delle contingenze, l’imbellettamento materialista del dimostrabile. Cosa vuoi mai dimostrare, scienziato in camice bianco, tellurico speleologo, profanatore di tibie e budella? Quando a forza di dati, statistiche, algoritmi, insistite escursioni nel microcosmo, ci si dimentica del cielo? Il cielo – macrocosmo – non si lascia inscatolare in un laboratorio, il cielo è affresco imperscrutabile, coi puntini siderali che si ricongiungono per tentativi umanisti in memoria del Mito, per formare certi disegni di stelle, narranti di ciò che ignoriamo. Ciò che sta lassù sta quaggiù.
Si, ma i tarocchi? Com’è noto sono carte illustrate, divise in Arcani maggiori (i 21 Trionfi e il Matto) e Arcani minori (le normali carte da gioco), decorate alla maniera della corte e dell’araldica di provenienza: Estensi, Marsigliesi, Viscontei, di Besançon, del Mantegna, fino a giungere alle più recenti elaborazioni. Carichi di una forte simbologia medievale e più dietro ancora, potrebbero però risalire al XV secolo, a certi passaggi di consegne tra Mantova e Ferrara, diffusisi poi in Europa centrale, fino al nord e alla Russia. Un gioco, trastullo popolare e nulla più. Valenze esoteriche s’intromisero a partire dal ‘700, allorquando influenze cabalistiche, esotismi e sincretismi di varia natura, mutarono il significato di far tarocchi, conferendo all’esperienza quell’afflato misterico tipico della divinazione. Pratica che nell’800 andò (anche grazie alla metabolizzazione francese, operata da Eliphas Lévi e da Papus) diffondendosi, anche come reazione al crescente razionalismo e all’indebolimento delle confessioni religiose ufficiali. Strumenti del demonio, per la Chiesa cattolica, i tarocchi coniugavano l’individualismo luciferino e stirneriano del “fai da te” a certe suggestioni paganeggianti, mai del tutto sopite in Europa. Difatti anche il magus Aleister Crowley se ne occupò con profitto. Teosofia, antroposofia, occultismo, diffusione di filosofie orientali, contribuirono in vario modo a preservare fino ai primi del ‘900 quella piccola disciplina oracolare, un po’ zingara, dal sopracciglio alzato dei sapienti, dei cattedratici, dei luminari. Difatti i tarocchi tornarono in auge – assieme a droghe, musiche e suggestioni spirituali alternative – all’epoca degli hippies. Così si giunge a tempi recenti, all’interesse per l’argomento manifestato da Dario Fo e Emanuele Luzzati, nelle arti figurative da Renato Guttuso, Salvador Dalí e Niki de Saint Phalle, la creatrice del noto Giardino dei Tarocchi di Capalbio. Ma soprattutto da Alejandro Jodorowsky, il quale se ne occupò magistralmente nel libro psicomagico “La via dei tarocchi”.
Dopo questa ondivaga dissertazione di carattere storico, piace concludere con qualche considerazione personale. Da eterno apprendista. I tarocchi prevedono il futuro? I tarocchi rispondono ai quesiti? Risolvono problemi? Fanno diventare ricchi o trovare l’amore? Alle frequenti domande si potrebbe asserire serenamente di no, i tarocchi non danno risposte a domande sbagliate. In parte perché il futuro non esiste, oppure è già accaduto, opinione come un’altra sulla quale fantasticare, messa negli abissi del proprio peculiare essere; in parte perché solitamente le domande che il consultane pone, contengono già la risposta, sovente situata nel passato, con più certezza nell’intimo della persona che si ha di fronte. “Fatti le carte da solo, ne sai più di me”, verrebbe da dire in certi casi. Perciò non resta altro da fare che arabescare nel limbo – tra intelletto e casualità – agevolati da disegni contenenti messaggi cifrati, arcani da raccontare in leggerezza, agevolati dal potere del medium. Non solo il significato precipuo della determinata carta, ma la capacità di leggerne la costruzione iconografica, anche in rapporto con le altre figure estratte casualmente dal mazzo. Costruzione dialettica, sofistica, estetizzante, inerente gli occhi di chi domanda, i soli in grado di darsi risposte che non paiano scuse. Si legge attraverso quelli, infatti. Si scruta ciò che il richiedente non vede l’ora di confessare, fingendo di nascondere nel dilemma. Di cosa stiamo trattando allora? Di veggenza? Di amenità psicologiche? Di trucchi per suggestionare menti deboli? Di cosmogonie da salotto con incensi? Tutt’altro. I tarocchi sono favole, storie inventate dal fato, che spetta all’orante mettere in ordine. “Posto che sogniamo la nostra vita, dobbiamo interpretarla e scoprire ciò che sta tentando di dirci”, afferma Jodorowsky. Come dargli torto, quando già c’era arrivato Marzullo? Signori, non sono certo i tarocchi ad essere strumenti fasulli, ma bensì la vita stessa, onirismo sovrastimato di sonnambuli convinti d’essere svegli.