Il primo film western che io ricordi, in cui gli indiani non erano la solita massa urlante di selvaggi rossi fu L’ultimo apache, diretto da Robert Aldrich, in questo film gli indiani avevano un volto decisamente umano, il protagonista era Burt Lancaster che interpretava il guerriero apache Masai. Era la prima volta in cui il protagonista era un indiano. Per anni il cinema western li aveva relegati nelle parti di selvaggi, cattivi, infidi e traditori. Vedere un indiano lottare per la sua dignità e per la sua famiglia cambiò il punto di vista di molti sul mito della frontiera negli anni a venire. Il film inizia con la resa di Geronimo, che con un piccolo gruppo di indiani si arrende al generale Crook dopo aver tenuto testa alla cavalleria americana. Dal New Mexico Geronimo e il suo gruppo di ribelli viene deportato nelle paludi della Florida. Durante il viaggio il guerriero Masai scappa e riesce sfuggire ai suoi inseguitori, durante la latitanza impara a coltivare la terra e nel finale ci sarà la resa dei conti, dopo essere stato catturato verrà liberato dopo la nascita di un figlio e potrà vivere con la sua famiglia. Questo film fu il primo lungometraggio di Aldrich a cui seguiranno altre pellicole fortunate come Un bacio e una pistola, Il grande coltello, Prima linea, Che fine ha fatto Baby Jane, Quella sporca dozzina. Aldrich fu un regista che si occupò di tutti i generi cinematografici riprendendo in un altro capolavoro del 1972, la verità storica in cui gli indiani sono vittime e non carnefici dal titolo Nessuna pietà per Ulzana, in cui abbiamo ancora Burt Lancaster questa volta nella parte della guida McIntosh, un uomo disincantato e cinico al quale viene affidato il compito di catturare e riportare nella riserva il capo Apache Ulzana il quale durante la sua fuga compirà numerosi atti cruenti che nascono dalla necessità di riconquistare la propria fierezza di guerriero. Il film appartiene al filone crepuscolare, non ci sono eroi, non ci sono buoni e cattivi, vincitori e vinti, c’è la distruzione di un popolo per mano dei bianchi e della tecnologia in loro possesso. Nel finale del film Ulzana viene ucciso da un indiano che per intascare la taglia tradisce i valori del suo popolo. E’ commovente nel finale in cui McIntosh agonizzante si arrotola una sigaretta e come ultimo desiderio chiede di essere lasciato a morire nel deserto non prima di dire al tenente De Buin la frase “La ragione non è mai da una sola parte”.
Da L’ultimo Apache a Nessuna pietà per Ulzana vi è un arco di venti anni in cui si assiste a una metamorfosi nel genere western in cui gli indiani non sono più una massa urlante di selvaggi ma vittime di soprusi da parte dei bianchi che sono traditori e bugiardi e che imbrogliano gli indiani con trattati di pace puntualmente disattesi. Tra questi due gruppi si oppongono i protagonisti che sono quasi sempre o bianchi individualisti e liberi, militari assennati e indiani lungimiranti.
La presa di coscienza sulla tragedia dei nativi americani l’abbiamo con L’amante indiana diretto da Delmer Daves, con James Stewart che dopo aver rappresentato il “sogno americano” in La vita è meravigliosa di Frank Capra si cimenta nel primo di una lunga serie di film western, dando vita a una nuova tipologia di cow boy diversa dai personaggi interpretati da John Wayne. Dotato di un fisico da hidalgo, lungo e allampanato interpreterà personaggi perdenti, in fuga dal proprio passato, con una dirittura morale in cui interpreta il sogno americano di chi si oppone ai prepotenti rispondendo alle durezze della vita. Nel film di Daves, Stewart interpreta uno scout congedatosi dall’esercito. L’amante indiana appartiene a un filone western diverso dove gli indiani sono capiti, ammirati, studiati e anche rimpianti. Da notare che il film che riabilita i nativi è uscito in pieno maccartismo. Hollywood comincia a interessarsi a un popolo millenario con usi e costumi differenti tra di loro. Sarà dagli anni 50 che l’indiano acquisterà nel cinema una sua dignità, anche se saranno attori di Hollywood a interpretare Cochise, Geronimo, Chato, Cavallo Pazzo e Toro Seduto. In L’amante indiana a interpretare Kociss sarà Jeff Chandler che darà una grande interpretazione del generale Frank Merrill nel suo ultimo film diretto da Samuel Fuller in L’urlo della battaglia ambientato durante l’ultima guerra mondiale in Birmania. Kociss in questo film è l’antagonista amico di Tom Jeffords interpretato da James Stewart, un grande capo indiano costretto a fare la guerra per difendere il proprio popolo ma proprio per amore del suo popolo è pronto a trattare la pace con i bianchi accettandone le leggi. Per questo film Chandler ottenne la candidatura all’oscar come migliore attore non protagonista. L’interpretazione di Jeff Chandler fu talmente convincente che due anni dopo il regista George Sherman lo sceglierà per interpretare lo stesso personaggio in Kociss l’eroe indiano e ricomparirà in un cameo nella parte di Kociss morente nel film Il figlio di Kociss del 1954 diretto da Douglas Sirk, un regista specializzato in drammi mélo. Questo film può essere considerato il sequel de L’amante indiana. Nel film Kociss ha due figli, Taza che vuole proseguire nella politica di convivenza pacifica con i bianchi come suo padre e Naice che vorrebbe unirsi agli apache guidati da Geronimo che in questo film sono interpretati da veri apache una delle tribù più “toste, fiere e crudeli” del West.
Anche i personaggi femminili erano sempre interpretati da attrici americane, messicane, greche e israeliane, comunque con caratteristiche esotiche, tra le attrici che interpretarono donne indiane c’è anche un’italiana, la compianta Elsa Martinelli nel film di André de Toth Il cacciatore di indiani del 1955.
Nelle trame di quegli anni era in genere un bianco che si innamorava di una pellerossa, James Stewart, Robert Redford in Corvo Rosso non avrai il mio scalpo o Kevin Costner in Balla coi lupi. In molti film le amanti indiane erano di solito destinate a morire, oppure erano già morte e facevano parte del passato dell’eroe come L’uomo che amò Gatta Danzante diretto nel 1973 da Richard Sarafian con Burt Reynolds o Il giorno della vendetta diretto da John Sturgess nel 1959, in cui la moglie indiana del protagonista viene violentata e uccisa dal cattivo di turno che altri non è che il figlio di un vecchio amico e datore di lavoro del protagonista.
Molti dei film citati sono ambientati negli anni Settanta dell’Ottocento, quando dopo la guerra di Secessione iniziò la corsa alla colonizzazione delle terre ancora abitate dagli indiani. Poco più di trenta anni per distruggere l’ultima resistenza indiana attraverso il “ferro e le malattie”. Prima dei coloni americani lo sterminio dei nativi lo avevano intrapreso gli spagnoli con gli Incas e gli Aztechi, successivamente con gli Apaches, quando le prime spedizioni spagnole giunsero nel territorio del Texas e della Valle del Mississippi, quando poi il Messico divenne indipendente l’opera di sterminio proseguì con il governo messicano.
Il nome “pellerossa” lo coniò il navigatore Giovanni Caboto per via dell’usanza dei nativi americani di tingersi il corpo di ocra rossa per difendersi dagli insetti. La consuetudine di prendere lo scalpo dai nemici l’avevano portata i conquistadores spagnoli e successivamente venne anche adottata dai coloni inglesi e dagli stessi indiani. Sul tema del bisonte vi è il film L’ultima caccia in cui il cacciatore Sandy Mc Kenzie interpretato da Stewart Granger dice “per ogni bisonte abbattuto è un indiano che muore di fame”. Il bisonte era un animale che viveva nelle grandi pianure del Sud Ovest degli Stati Uniti, era il sostentamento dei Sioux dei Cheyenne e dei Comanche che vivevano nelle grandi pianure e dava a queste popolazioni da vivere: la pelliccia, la pelle, la carne e il grasso e le ossa. Nel 1860 la popolazione del bisonte si aggirava intorno ai 60 milioni di capi, e per migliaia di anni aveva dato da vivere alle popolazioni indiane, nel giro di pochi decenni cacciatori professionisti pagati dal governo li sterminarono. Tornando al film L’ultima caccia la protagonista femminile è interpretata da Debra Paget nella parte dell’indiana che già l’aveva resa famosa in L’amante indiana, a differenza del film con James Stewart non muore, nel finale del film dopo che il sanguinario cacciatore Charlie Gilson che la teneva prigioniera muore congelato durante la tormenta se ne va verso ovest con il socio “buono” e onesto interpretato da Stewart Granger, a completare la famiglia allargata un trovatello indiano e un giovane sangue misto. Il film in sé è interessante, con Robert Taylor bravissimo, anche se un attore di vecchio stampo interpreta con veridicità la parte di un cacciatore spietato e sanguinario che a poco a poco perde contatto con la realtà senza ricorrere all’Actors Studio.
Nel cinema western quando si parla di indiani è sempre presente il bisonte e qualche volta diventa quasi una creatura mostruosa che popola gli incubi dei personaggi famosi come Sfida a White Buffalo di J. Lee Thomson dove il protagonista è Wild Bill Hickok, un personaggio realmente esistito interpretato da Charles Bronson si allea con Crazy Horse, a cui il Grande Bisonte Bianco, che rimanda a Moby Dick, ha ucciso la figlia. L’indiano in questo film è quasi un elemento della natura come l’acqua, il deserto, le montagne e le pianure.
Anche Cavallo Pazzo compare in molti film western, fu un grande capo della Nazione Indiana, assieme a Nuvola Rossa e Toro Seduto guidò un’alleanza di Indiani che andava dai Sioux, ai Cheyenne ai Piedi Neri che impartì una sonora lezione al colonnello George Armstrong Custer il 25 giugno 1876 al Little Big Horn, il Settimo Cavalleggeri venne annientato. Sempre su Cavallo Pazzo vorrei ricordare il film Furia Indiana del 1955, diretto da George Sherman, definito dal critico italiano Morando Morandini un “prolifico westernicolo”. Il film è un falso storico, a interpretare il capo indiano è Victor Mature, che cerca in tutti modi possibili di evitare un conflitto armato con le truppe americane, ma quando di fronte all’evidenza di una pace impossibile scende in campo decide di adottare tecniche di guerriglia altrettanto letali al posto delle cariche indiane suicide, una tattica vincente che nonostante i bianchi siano numerosi e meglio armati non riescono a mettere le mani su Cavallo Pazzo.
Uno degli ultimi film in cui l’indiano è un essere diverso ma che collabora con la parte migliore dei bianchi è uno degli ultimi film di John Ford Il grande sentiero del 1964. Il film è ambientato nel 1878, si narra che la tribù dei Cheyenne che aveva sconfitto Custer, dopo essere stati segregati in una riserva dell’Oklahoma, sono ridotti alla fame e decimati da alcool e malattie, decidono allora di lasciare la riserva e si dirigono verso le terre dei loro antenati nel Wyoming, percorrendo 2000 km, si tratta di persone ridotte alla disperazione, sono tallonati dall’esercito al comando di un capitano interpretato da Richard Widmark, che è preoccupato per la sorte dei Cheyenne. Alla testa del gruppo due coraggiosi e determinati capi indiani anziani Piccolo Lupo e Coltello Spuntato interpretati da Ricardo Montalban e Gilbert Roland.
Le cose cambiarono dal 1969, con alcuni titoli che ribaltarono l’immagine dell’indiano nel cinema western con Ucciderò Willie Kid del 1969 diretto da Abraham Polonski, Il piccolo grande uomo del 1970 di Arthur Penn, Soldato blu del 1970 di Ralph Nelson e Un uomo chiamato cavallo del 1970 diretto da Elliot Silverstein. Questa prospettiva diversa di rappresentare gli indiani fu dovuta anche alla guerra del Vietnam e alla contestazione del “mito della frontiera” equiparando il popolo vietnamita agli indiani. La lotta dei pellerossa che si opponevano alla conquista dell’Ovest rappresentata nel cinema era la rappresentazione della lotta del popolo vietnamita contro l’imperialismo americano.
Nel 1957 era già uscito un film dalla parte degli indiani in cui un bianco deluso dopo la fine della guerra di secessione decide di andare a vivere con gli indiani, il film diretto da Sam Fuller ha per titolo La tortura della freccia ed è interpretato da Rod Steiger che interpreta un soldato confederato, che dopo aver combattuto nella guerra di secessione, dopo la resa del generale Lee, si unisce a una tribù di indiani e superata la “Tortura della freccia” sposa un’indiana e diventa un Sioux, combatterà contro le giacche azzurre comandante da un tenente fanatico e cosa incredibile per l’epoca saranno gli indiani a vincere. Il film di Fuller assieme a L’amante indiana sono antesignani di quella cinematografia che dagli anni Settanta darà una visione realistica della vita indiana fuori dai toni demagogici hollywoodiani precedenti con una ricostruzione degli usi e costumi veritiera. Un film famoso su questo tema fu Un uomo chiamato Cavallo diretto nel 1970 da Elliot Silverstein, la trama racconta del nobile inglese Lord John Morgan rapito dai Sioux mentre era in viaggio nel Dakota, una volta giunto al campo viene sottoposto a ogni forma di umiliazione e mortificazione, da qui appunto il soprannome datogli dagli indiani Shunka Wakan che in lingua Sioux vuol dire cavallo. Nel villaggio fa amicizia con il mezzo sangue Batise che si finge pazzo, grazie a Batise impara a conoscere la cultura e la lingua dei Sioux. Gradualmente dopo aver ucciso due indiani Shoshones che si erano incautamente avvicinati al villaggio si impadronisce dei loro cavalli e dopo averli scalpati ottiene la fiducia della tribù e a entrare nella cultura di quel popolo, dato che intende sposare la sorella del capo Tortora Bianca deve sottoporsi alla prova del dolore che supera con coraggio e può sposare. Alla fine del film salva il villaggio da una incursione degli Shoshoni, purtroppo durante l’attacco muoiono Batise e Tortora Bianca assieme al bambino che aspettava, a John Morgan non resta che tornare in Inghilterra dopo aver dato un ultimo saluto alla moglie.
Nel film oltre agli indiani che sono nativi autentici che si esprimono nella loro lingua è imbevuto dell’atmosfera psichedelica hippy degli anni Settanta con riti religiosi a base di calumet, funghi allucinogeni, infusi di muschio e riti di brujeria.
I film che rappresentano al meglio la tragedia dei nativi americani e il nuovo modo di sentire sono due Piccolo grande uomo e Soldato Blu iniziando un ciclo di film in cui i bianchi non erano più i buoni come James Stewart, ma avventurieri sadici che interpretavano le leggi secondo i loro interessi e i soldati non erano più ufficiali assennati e comprensivi come John Wayne ma dei mastini al servizio dei politicanti che imponevano agli indiani trattati capestro che venivano disattesi. Soldato Blu diretto da Ralph Nelson nel 1970 racconta la tragedia dei nativi americani attraverso gli occhi di un soldato e di una donna bianca tenuta prigioniera dagli indiani. Nel 1864 un convoglio dell’esercito diretto a Fort Reunion che trasporta una cassa di oro viene attaccato dagli indiani, del plotone di scorta, sopravvivono un soldato di nome Honus Gent e una donna di nome Katy, i due dopo varie peripezie e avventure picaresche e violente riescono a sopravvivere. Durante la fuga per raggiungere il forte non mancano le discussioni tra i due, Honus vorrebbe pregare per i morti e seppellirli dopo l’attacco ma Katy lo schernisce chiamandolo “soldato blu” e sostiene le ragioni a favore degli indiani che verranno confermati nel finale quando assisteranno al massacro finale del Sand Creek dove 600 indiani cheyenne vennero fatti a pezzi nella realtà da una milizia di ausiliari, nel film saranno i militari regolari dell’esercito degli Stati Uniti a compiere la strage. Oltre al film conosciamo la storia del massacro Sand Creek attraverso la canzone di Fabrizio De André in cui le atrocità commesse superarono di gran lunga quelle commesse dai nazisti nei campi di concentramento, tanto che la visione del film fu vietata ai minori e che girò una copia con le scene di violenza tagliate. Con questo film viene alla luce che gli indiani non erano gli aggressori ma gli aggrediti.
Un altro western revisionista è Il piccolo grande uomo diretto nel 1970 da Arthur Penn interpretato da un bravissimo Dustin Hoffman, in cui vengono narrate in prima persona le vicende di Jack Crabb, che giunto all’età di 121 anni, racconta la sua storia a un giornalista attraversando l’epopea del West che lo vedrà prima commerciante, pistolero, ubriacone, truffatore, scout dell’esercito e sarà testimone del massacro del Sand Creek e della battaglia di Little Bighorn in cui assisterà alla disfatta di un vanesio generale Custer rappresentato come un tronfio, insensato e idiota militarista molto lontano dal generale Custer interpretato da Errol Flynn nel 1941 de La storia del generale Custer in cui Custer è un eroe mosso da ideali di giustizia che dialoga con gli indiani.
Il colonnello George Armstrong Custer (1839 – 1876) è stato rappresentato diverse volte al cinema, agli inizi l’eroe era circondato da un alone romantico che emanava dalla sua figura: capelli lunghi e biondi, il fisico asciutto, baffi e pizzetto ben curato, vestito con una giacca di pelle come i cacciatori, il cinema revisionista ce lo descrive come un esaltato, guerrafondaio, razzista e scarso dal punto di vista militare. Il primo film western che lo rappresenta è un film del 1909 Custer’s Last Stand diretto da Francis Boggs in cui si rievoca lo scontro del 1876. Nel 1968 esce nelle sale cinematografiche Custer l’eroe del West diretto da Robert Siodmak, con l’ottimo attore inglese, Robert Shaw, il personaggio ha molta aderenza con il vero Custer che finirà ucciso a Little Bighorn. Nel 1967 era uscito Custer il ribelle di Norman Foster, contro la verità storica il generale si salva dallo scontro con Cavallo Pazzo, ma non è un film che merita di essere ricordato.
Sia in Il piccolo grande uomo che La tortura della freccia i protagonisti scelgono di vivere con gli indiani perché sono la parte migliore dell’umanità, lo stesso farà il protagonista di Balla coi lupi nel 1990 diretto e interpretato da Kevin Costner. Il film uscì quando il genere western era entrato in crisi dopo i flop di I cancelli del cielo e Silverado, dato che nessuno intendeva sobbarcarsi i costi di produzione, Kevin Costner oltre alla regia finanziò anche la produzione. Nel film si narra la vita del tenente unionista John Dunbar, che dopo essere stato ferito in uno scontro a fuoco durante la guerra civile, in una situazione di stallo in battaglia attraversa il campo nemico tra i due schieramenti a cavallo sventolando la bandiera dell’Unione, il suo gesto risolve lo scontro in favore degli unionisti, per l’eroismo dimostrato in battaglia John Dunbar chiede di essere mandato alla frontiera dove vivono i Sioux. Nel film di Costner gli indiani sono i depositari di altri valori morali, vivono in simbiosi con la terra e coniuga le istanze New Age con lo spiritismo e l’animismo della religione Sioux che vivono in accordo con la natura che li circonda e cacciano il bisonte solo nella quantità necessaria al loro sostentamento. Il suo primo contatto quando si trova solo lungo la frontiera è un lupo a seguire si legherà ai Sioux che gli insegnano a vivere in armonia con la natura. I problemi iniziano all’arrivo della cavalleria che uccide il lupo e il cavallo di John Dunbar il quale viene condannato a morte per alto tradimento, per fortuna giungeranno i Sioux a liberarlo. Il film fu considerato un capolavoro e si aggiudicò ben sette premi Oscar incassando quasi 100.000.000 di dollari il primo anno, come era accaduto per Silverado subito si pensò a una rinascita del genere ma quasi sempre si tratta solo di falsi allarmi. Oggi il genere con i suoi stereotipi è confluito in altri generi come il poliziesco, i film di fantascienza e i film di guerra. I “cappelloni”, i personaggi dei film di John Ford non esistono più, era all’epoca un genere in cui gli eroi erano uomini, oggi vanno di moda altri generi di eroi più vicini alla realtà che viviamo o supereroi alla Batman. La lotta tra buoni e cattivi c’è sempre solo bisogna comprendere bene che “la ragione non è mai da una sola parte”.