C’è fermento a Everest. Il momento di Forza Italia è di quelli decisivi: una volta si sarebbe detto che gli azzurri sono alle prese con “la madre di tutte le battaglie”, quella – per dirla col latinorum – del “primum vivere”.
Sarà che sono giovani e ci hanno davvero creduto quando gli hanno raccontato che il futuro è loro. Sarà che vivono la militanza nelle strade e nei quartieri e perciò si rendono conto della necessità di trovare una via che garantisca al partito una proiezione futuribile. Sarà la rabbia, ma venerdì, quando si tratta di parlare delle sfide presenti e future di Forza Italia, loro scendono in campo. Attaccano e pretendono spazio, si raccontano e attaccano. Lancia in resta. Sono stufi di essere confinati nell’ombra, nel limbo dorato e inutile dell’essere “giovani”.
Vogliono che il partito creda, finalmente, in loro e che li metta in condizione di associare all’impegno militante quello politico. In definitiva, chiedono di essere ascoltati, perché quello che hanno da dire è davvero interessante. Hanno ragione due volte, perciò, se pungono gli assenti che, mai come in questo caso, hanno torto.
Chi, invece, venerdì sera è rimasto ad ascoltare i giovani al tendone di Everest, ha potuto ascoltare e capire come qualcosa sia cambiata tra i loro ranghi. Forse, l’ultimo baluardo incontaminato del forzismo resta il culto del “capo” a cui si rivolgono quale baluardo: li difenda dai maggiorenti che non lasciano trapelare le loro inquietudini ai vertici del partito.
Per il resto, molto è cambiato: vacilla quella ostentazione incravattata dell’entusiasmo a tutta prova, resta poco della fede incrollabile nelle magnifiche sorti e progressive del liberalismo. Non resta, di ciò, che l’eco di un luogo comune al tramonto. Non citano più Stuart Mill, né Tocqueville: i giovani di Forza Italia ripetono, con enfasi e trasporto, le frasi di Giorgio Almirante, c’è chi parla di “destra sociale” e rimprovera (magari a Salvini) di intestarsi battaglie altrui (su tutte quella della flat tax) e di condurle pro forma.
Parlano di militanza, di incontro e di comunità, si battono per la famiglia e il lavoro, parlano di valori, di impresa quale espressione dell’umano e non (solo) della contabilità finanziaria. La loro lingua è quella koiné che si parla nel mondo che si identifica all’opposizione del cosiddetto “mainstream”.
Si dicono frustrati quando, dopo giornate passate ai gazebo, si ritrovano lanci stampa di segno opposto, che confondono gli elettori e li fanno trovare spiazzati. Lamentano l’andamento ondivago che il partito esprime su temi in cima all’agenda politica nazionale. Questo perché, spesso, le posizioni della “giovanile” militante a volte risultano confliggenti con le dichiarazioni degli “adulti”. Sanno che non basterà, sempre e solo, evocare l’eterno ritorno di Berlusconi per convincere i cittadini a tingere d’azzurro le loro schede elettorali.
Individuano, in ciò, uno dei mali maggiori che affligge Forza Italia, vivere di profonde contraddizioni e non riuscire, perciò, a spiegarsi efficacemente agli elettori. Una frustrazione che val doppio perché rivendicano che, quando sui territori li si è lasciati lavorare, il partito è arrivato a cogliere vittorie insperate. Come in Toscana, in Molise.
Il problema del “primum vivere”, perciò, loro lo risolvono così: chiedendo fiducia, autonomia e meritocrazia. Una generazione nuova vuole crescere e chiede spazio per farlo. Forse, anzi sicuramente, la sfida del futuro di Forza Italia, che mai è stata capitale e strategica come in questi anni, passa inevitabilmente da qui.