“Senza far rullare i tamburi” avverte Luciano Canfora, filologo e storico, professore emerito dell’Università di Bari, autorevole voce della cultura italiana, tra i più letti e tradotti al mondo, quando presenta il metodo con cui affronta il problema dell’utilità dei classici. E riapre un dibattito che da anni ruota intorno al mondo dell’educazione culturale e necessariamente della Scuola. E sembra rispondere idealmente a chi come Nuccio Ordine difende lo studio dei classici e delle lingue classiche per farne spazio sottratto al conseguimento di uno scopo immediato o proficuo e luogo della bellezza disinteressata; oppure come Nicola Gardini che nello studio del latino e di autori come Ovidio vede un meraviglioso e vivo viaggio delle idee. In “Gli antichi ci riguardano”(Il Mulino) il professor Canfora, con l’impeto di mente e di parola che gli appartiene, dimostra storicamente che i classici e le traduzioni ( cui dedica l’appendice del suo volumetto che ha il ritmo e il nitore di un pamphlet) sono utili perché il confronto tra passato e presente è specularità drammatica (ossia conflittuale) e senza facili né utopiche risposte. Ho incontrato Luciano Canfora dopo le rappresentazioni classiche di Siracusa (a Luciano Canfora è stata affidata la consulenza storico- filologica), e la prima della commedia di Aristofane “I Cavalieri”.
“Gli antichi ci riguardano” perché sono drammatici e non consolatori?
“Esatto. Non consolatori tranne che nella visione un po’ oleografica che si dava una volta del mondo antico, specie romano. Durante il fascismo, il mondo romano è stato usato e abusato, ma sostanzialmente frainteso in tanti aspetti. È da evitarsi pure una visione consolatoria perché gli antichi consolatori non sono. Le faccio un esempio: tutta la società antica era fondata sul rapporto libero-schiavo, cioè aveva una forte componente numerica e anche operativa nel mondo del lavoro affidata a persone la cui figura giuridica era subordinata. Oggi, in maniera strepitosa, questo fenomeno appare su scala mondiale nelle forme più diverse: dal salario vergognoso dei lavoratori delocalizzati ai nostri schiavi, in Calabria o anche in Veneto, adibiti a lavori tremendi e retribuzione ignobile e condizioni di vita abbrutenti. La schiavitù è, dunque, tornata in grande stile persino nei Paesi occidentali ricchi come il nostro. Non è mai finita nel mondo coloniale dove le colonie erano una forma di asservimento. Va da sé, ritengo, che la lettura della società che ha lasciato traccia di sé nell’affrontare la questione della schiavitù diventi un problema. Quindi le lettere di Seneca che trattano questa questione sono di un’attualità fortissima: non più un testo consolatorio, di buon cuore ma un testo che aiuta a capire come argomentava quell’uomo davanti al problema dell’indimostrabilità della differenza libero-schiavo, sul piano etico. Ecco perché ci riguardano”.
(Gli antichi ci riguardano perché sono utili non inutili: gli antichi parlano di quello che noi abbiamo accanto e addosso. Nel libro Luciano Canfora sviluppa il suo discorso nell’ottica storico-politica, partendo da una critica netta al sistema dell’istruzione, alle riforme della scuola “regno dell’approssimazione e semplificazione demagogica” che si sono accanite con tagli dello studio del mondo antico. A scapito di quelle competenze su cui ogni sistema sociale dovrebbe reggersi. E sulla cui base dovrebbe scegliere la classe dirigente. Scelta che più di duemila anni affrontò grottescamente Aristofane proprio nei “Cavalieri”, la commedia politica per eccellenza: Canfora afferma che Aristofane, nell’Atene degli anni della guerra del Peloponneso, raffigura “uno scontro epico al cui fondo c’è che un demagogo più repellente di quello dominante riesce a scalzare il demagogo dominante”).
La scelta del capo. Nella sua lectio all’Orecchio di Dionisio (inserita negli eventi collaterali del 54° Festival del Teatro Greco di Siracusa) ha citato Max Weber e la teoria del capo carismatico, ossia” il capo che di prende la responsabilità delle azioni immorali”. Facciamo anche noi il confronto tra passato e presente: non pensa che questo governo in fondo si stia assumendo la responsabilità di azioni “immorali”?
“Certamente, ma non è una regola generale. Nella conferenza ho anche citato una valutazione poco nota di un grande studioso tedesco dell’800 che si chiamava Johann Gustav Droysen per spiegare Cleone (lo strategia attaccato nella commedia, ndr) in termini positivi, cioè come un grande politico e non come lo sciagurato lestofante di Aristofane. Droysen cita due personaggi, uno Gaio Mario l’altro Robespierre e per entrambi -cosa tutt’altro ovvia per Robespierre perché il giudizio storico su di lui non è tanto frequente fino alla fine dell’800 e gli inizi del ‘900- c’è un elemento di maturazione storiografica di questo studioso tedesco su un arco amplissimo. La storia della Rivoluzione francese è per i tedeschi un capitolo a sé: hanno simpatizzato con la Rivoluzione ma hanno detestato Bonaparte, perché le guerre di liberazione tedesche sono contro l’occupazione francese, contro Bonaparte; quindi era molto nuova da parte di un Droysen, nell’anno 1838, questa valutazione positiva, per recuperare Cleone con l’argomento che è di quei personaggi della Storia che hanno osato fare quello che il cittadino comune mai farebbe: accollarsi l’onere dell’azione immorale. Inoltre, dietro le riflessioni di Droysen e di Weber c’è il famoso capitolo XVIII del “Principe” di Machiavelli che si apre dicendo che tutti sappiamo come sia buona cosa mantenere la parola data ma… E qui cominciano i ma: il politico che ha un obiettivo grande da perseguire può anche commettere azioni che prese per sé sono giustamente considerate immorali. Ed è il conflitto tra etica e politica che attraversa tutta la storia del pensiero da Socrate ai giorni nostri. Ovviamente non rientra tutto in maniera indiscriminata, per cui anche il nazionalsocialismo o il fascismo potrebbero motivare le proprie malefatte e i propri crimini con questo ragionamento. Oggi manca il grande obiettivo positivo al quale Gaio Mario, Robespierre o forse lo stesso Cleone si sono ispirati calpestando una serie di passaggi, di remore morali che altri ritengono invalicabili. La teoria del capo carismatico non è il passpartout con cui giustificare tutto per chiunque. Per venire alla sua domanda, il governo attuale è composto da una parte di insipienti innamorati della poltrona di ministro e sono i cosiddetti stellati e da una parte di neofascisti del tempo nostro capeggiati da Matteo Salvini. Non c’è motivo per giustificare le loro azioni nefaste. Qual è il grande ideale per il quale un Salvini ci mette nelle condizioni di diventare l’obbrobrio dell’Europa? Tenere contenti i suoi elettori, che possono considerarsi xenofobi e allora è evidente che il ragionamento di Weber o di Droysen non c’entra niente”.
È anche un problema di fonti da cui attingere per studiare questi personaggi?
“Non solo. L’opinione di Machiavelli e di Weber non è scontata. Si può continuare a dissentire nobilmente da loro in nome dell’invalicabilità del principio morale. Il pensiero moderno, e anche antico, si arrovella esattamente su questo e non c’è la risposta pronta, sicura. È un problema grande che trascende un Salvini. Non sarà mai risolto in maniera definitiva se non con scelte dolorose”.
Che ci attendono?
“SÌ, e dolorose anche sul piano individuale, nel senso che uno si brucia. Weber dice “chi fa questo alla fine è un eroe perché rovina se stesso”, a patto di avere un grande ideale da perseguire”.
Non c’è allora un orizzonte politico?
“Non c’è una ricetta applicabile a tutti i casi. Se ci fosse, tutti i problemi politici sarebbero stati risolti da millenni”.
Parliamo di elettorato…
“Il riferimento alla xenofobia riguarda la base sociale della Lega, mentre coloro che hanno votato per Di Maio sono i disperati del Mezzogiorno d’Italia, che il giorno dopo andarono all’ufficio comunale a chiedere il reddito di cittadinanza. Come è successo qui in Puglia, a Giovinazzo: gente che ha sofferto e soffre una condizione umana tremenda e ha pensato di aver trovato il riscatto e purtroppo si sono ingannati. Perché il riscatto non è dietro l’angolo né è facile da attuare in tempi brevi. Questo è un tipo di elettorato di cui ho grande rispetto, ma mi rammarica che abbia scelto degli insipienti che promettevano cose che non potevano realizzare”.
In un suo intervento a proposito del dibatto sulla Brexit lei ha risposto affermativamente alla domanda “Devono votare pure gli ignoranti?”. È ancora dello stesso parere?
“Certamente. Ignoranza non vuol dire insipienza politica. L’insipienza politica è una condizione disagevole che considero triste soprattutto per chi in essa si trova. Quelli che, per esempio, votano per la Lega consapevolmente non sono in condizione di ignoranza politica. L’ignoranza sul piano dell’alfabetizzazione, a parte che è sempre rimediabile, può anche convivere con un acuto senso politico. Quanti sono stati recuperati alla politica, quando finalmente, è stato concesso il suffragio universale? È un bene perché prima con l’argomento dell’analfabetismo si tenevano fuori dal corpo elettorale i poveri, soprattutto nel Meridione d’Italia. Il bracciante pugliese che si schierava con Giuseppe Di Vittorio negli anni ’20 qui a Bari o a Cerignola, era sicuramente analfabeta ma sapeva benissimo perché combatteva”.
Quindi è una questione di educazione alla politica?
“I partiti politici sono nati per questo, soprattutto il Pci almeno fino a Renzi, l’inventore del meccanismo delle primarie, che sono una buffonata per cui i passanti eleggono il segretario di un partito e i militanti di quel partito non contano niente. Renzi ha distrutto l’unico partito ancora vivente. Se non avesse fatto l’intervista brutale con Fabio Fazio, per interrompere la trattativa che era già avviata, non avremmo questo governo ma una diversa coalizione, in cui probabilmente il Pd avrebbe potuto svolgere un ruolo positivo, accanto a un partito così impreparato come i famosi Cinque Stelle. Invece, in quella sciagurata intervista, facendo la parte del padrone del suo partito, ci ha regalato una cosa che evidentemente desiderava: un governo con dentro Salvini, la Lega e il peggio dell’Italia”.
E anche di preparazione politica. Andiamo alle competenze e a “Gli antichi ci riguardano”. Demagogia, democrazia e democrazia diretta: è pure a partire da questi termini che gli antichi ci riguardano e, volendo scherzare, ci guardano?
“Ci guardano è una lettura sbagliata del titolo che spesso mi capita di sentire. Il linguaggio della politica e le dinamiche di conquista del consenso – che è poi il fondamento della politica- sono fenomeni di lunghissima durata. Non è perché gli antichi siano il modello, che noi facciamo capo a quella terminologia, ma perché quella è la terminologia della lotta politica. Dopodiché chiarito questo punto lessicale, che è più che lessicale perché la conquista non è solo una parola ma è una procedura, bisogna avere però chiare le differenze fondamentali per cui le decisioni a maggioranza di un corpo civico investito direttamente del problema (la città greca è fatta così) non è trapiantabile in una realtà statuale più grande, per non dire moderna. Prendiamo l’aneddoto di Erodoto cui i Greci non credevano quando disse che si voleva instaurare la democrazia in Persia. Non gli credevano non tanto perché avessero disprezzo dei Persiani ma perché si chiedevano come fare l’assemblea dei Persiani abitanti di un Impero territoriale enorme. Analoghe questioni si pongono laddove vi siano strutture territoriali di vastissime proporzioni. Perché il meccanismo democratico di decisioni a maggioranza di un corpo civico si interrompe per millenni e ricompare col Comune medioevale, con gli esperimenti tentati durante la Rivoluzione francese? Perché nel frattempo vi sono state realtà statuali enormi (l’Italia romana, l’Impero romano e carolingio) nelle quali è ovvio che quel modello della città greca non poteva nemmeno essere preso in considerazione. Questa lunga eclissi della parola e della pratica connessa si spiega con la natura specifica della democrazia antica, che è elementare, legata a un corpo civico piccolissimo, in cui partecipa una minoranza”.
Una democrazia non uguale?
“Non è solo questione di uguaglianza: nella città greca chi vuole va e chi non è interessato non va. L’assenteismo e la rassegnazione al fatto che contano più i leader popolari, e non i principi, induce alla rinuncia a fruire di quel diritto. La storia che noi raccontiamo deve essere critica, avere i piedi per terra: non è una dimenticanza del modello, è che per lungo tempo quel modello non fu praticabile, perché era nato legato a una società arcaica e piccola. Il grande problema si ripropone con le rivoluzioni del ‘700 e di tutto il secolo decimonono è coniugare il principio democratico con i grandi Stati Nazionali. Quindi si impone il concetto della delega. Diceva Rousseau “il popolo inglese il giorno dopo che ha votato ridiventa schiavo”. Nel senso che ha già delegato ad altri il potere che ha esercitato solo nel giorno in cui ha votato. D’altronde la soluzione alla difficoltà insita nella delega non è facile da trovare. La tentarono i sovietici quando diedero vita a una realtà consiliare ossia tanti consigli legati al luogo di lavoro, che teoricamente ebbero un potere decisionale e che rapidamente poi non funzionarono così. Ci fu un soggetto politico molto preparato, molto capace di insediarsi nella società, fortemente direttivo o senz’altro autoritario che era il partito, il quale riteneva di interpretare e sintetizzare le esigenze che passano dai tanti luoghi di lavoro dei soviet. Esperienza che ha avuto grandi momenti, che ha avuto una decadenza inarrestabile negli anni ’70-’80 e che ora è alle nostre spalle. Uno sforzo non riuscito: vuol dire che il problema della delega, ciò che vanifica il principio democratico inteso alla maniera degli antichi è dinanzi a noi insoluto”.
Demagogia e populismo…
“Più volte ho detto che la parola populismo priva di senso. Nessuno sa definire in maniera scientifica questo termine. Per spiegarlo si portano degli esempi. E gli esempi sono infiniti e differenti l’uno dall’altro. Garibaldi era un populista: si proclama dittatore appena arriva a Napoli. Probabilmente anche Mazzini col suo “Dio e popolo”, ma anche Juan Peron e Benito Mussolini. Populismo è un concetto che andrebbe messo nella pattumiera e non usato mai. Lo stiamo usando per insultare l’avversario. Quando uno vuole dire male dell’avversario si dice “è un populista”, quindi non dice niente. La mia speranza è che dopo qualche tempo in cui ci applichiamo a criticare un concetto privo di senso, questo concetto non venga più usato. Lei può dare un grande aiuto in tal senso dando la nostra intervista al New York Times…”.
Passiamo oltre le vignette, specialità del New York Times, e torniamo al libro. Nella prima parte insiste sulla funzione della scuola. Interessante questo passaggio sulla scuola che “dovrebbe avere come principale risultato la mutazione di un soggetto necessariamente eterodiretto e subordinato ad una autorità forte e indiscussa in soggetto pensante”. Questo è ciò che i docenti chiedono e che viene puntualmente disatteso.
“Nessuno d’altra parte nasce già dotato di questi strumenti. Molto spesso, nel passato e nelle classi più acculturate e benestanti la coscienza politica si formava via via e poi si incrociava con la scuola: non era sempre un incontro cordiale, poteva nascere una crisi o uno conflitto. Oggi quella coscienza non è più in nessuna classe sociale e quindi il compito della scuola è centuplicato. Per fortuna, tornando alle competenze, mi pare che l’articolo della norma della cosiddetta Buona Scuola che dava ai presidi ilpotere,enorme, della nomina diretta sia stato cancellato. Vuol dire che una delle cose più repellenti fatte da Renzi pare sia stata demolita. Quindi onore al merito”.
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Onore al merito anche a Franz Mering del quale “Gli antichi ci riguardano” riporta una citazione, perfetta per chiudere questa chiacchierata con Luciano Canfora.
“Ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale, restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che avrebbero voluto togliere agli operai l’interesse per la cultura antica”.