Un commando di Potere Operaio, sostenuto dalla ricca borghesia e rimasto impunito, contro un proletario missino di borgata. Un uomo che pagherà un conto salatissimo per ciò che veniva considerato “inaccettabile” dalla sinistra extraparlamentare: ossia la militanza della sua famiglia – con un buon seguito sociale – nel quartiere più popolare di Roma. Il rogo di Primavalle, strage tra le più infami e orripilanti che la storia dell’Italia contemporanea ricordi, a distanza di quarantacinque anni restituisce ancora oggi non solo il clima della violenza e della persecuzione antifascista di quella stagione – vero e proprio odio dal sapore “etnico” – ma anche il capovolgimento dello schema che una falsa narrazione aveva disegnato fino a quel momento.
Quel 16 aprile del 1973 a morire, arsi vivi in un attentato incendiario contro l’appartamento del segretario della sezione del Msi “Giarabub”, Mario Mattei, saranno due dei suoi figli: Virgilio e Stefano, ventidue anni il primo, solo dieci il secondo. Veri figli del popolo, la cui immagine impressa in quella finestra che sputava fuoco è diventata il simbolo della follia della violenza politica di quegli anni. A colpire la piccola casa di via Bibbiena, nel quartiere popolare di Primavalle, invece, sarà un nucleo comunista di Potere Operaio composto, come accertato nelle aule di tribunale, da Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo. Anni dopo, ormai in pieni 2000, sarà invece Lollo a puntare l’indice, chiamandoli in correità, anche contro gli amici più stretti di allora: Diana Perrone, figlia della famiglia allora editrice del quotidiano Il Messaggero, Paolo Gaeta ed Elisabetta Lecco.
La “firma” del gesto (maledettamente aderente con gli slogan di piazza del tipo «Le sedi dei fascisti si chiudono col fuoco, però con loro dentro, sennò è troppo poco») sta nella rivendicazione lasciata nei pressi dell’abitazione: «Brigata Tanas – guerra di classe – Morte ai fascisti – la sede del Msi – Mattei e Schiavoncin colpiti dalla giustizia proletaria». Giustizia proletaria, millantavano. Attacco caratterizzato dalla violenza “classista”, invece, contro una famiglia irriducibile nella fede politica (la mamma, la signora Anna, e Virgilio, volontario nazionale: tutti aderenti al Msi come papà Mario, ex volontario della Rsi).
Un episodio in particolare, rievocato anche da Annamaria Gravino nella graphic novel “Il rogo di Primavalle. L’omicidio politicamente corretto dei fratelli Mattei”, restituisce meglio di altri quale snobismo e quale classismo accompagnarono l’efferato assassinio dei fratelli Mattei. Due militanti di Potere operaio si incaricarono di coinvolgere il giornalista del Messaggero Ruggero Guarini a contribuire all’infame libretto “Primavalle. Omicidio a porte chiuse”, per convincerlo gli chiesero se credesse davvero che «ragazzi intelligenti, colti, preparati come noi, dei marxisti seri che leggono i Grundrisse di Karl Marx» potessero «individuare in un povero netturbino, segretario della sezione del Msi di Primavalle, un nemico di classe».
Su questo luogo comune, sull’arroganza dell’élite e su un castello di menzogne la sinistra extraparlamentare, con il sostegno blasonato di personaggi come Franca Rame, costruirà il clima di intimidazione per gli inquirenti e l’ondata di protesta mediatica, politica e intellettuale a favore dei tre indagati. Dei quali solo uno – Lollo, appunto – affronterà il processo, prima di fuggire anche lui come latitante all’estero. La tesi, surreale e oltraggiosa, era quella dell’auto-attentato, «nato e sviluppatosi nel verminaio della sezione fascista del quartiere», come si leggeva nell’ignobile quaderno che tentava di scagionare gli assassini. Già quattro giorni dopo l’attentato il Manifesto del resto sentenziava così: «Per una montatura fallita, un delitto orrendo, Primavalle», sostenendo proprio l’idea di una “trovata” dei missini per attaccare la sinistra, andata poi fuori controllo.
Non è un caso che alla notizia dell’assoluzione in primo grado per gli imputati (prima della condanna in Appello a diciotto anni per omicidio colposo, arrivata solo molti anni dopo e mai scontata dagli assassini) si brindava a champagne nel più chic dei ritrovi: casa dei genitori di Lollo a Fregene, in compagnia dell’intellighentia romana che andava per la maggiore, da Alberto Moravia a Dario Bellezza fino a Mario Schifano.
Davanti all’offensiva antifascista e criminale di quegli anni, alle bugie e alle coperture altolocate e “borghesi” dei colpevoli, restano scolpite allora le parole di Giorgio Almirante pronunciate al funerale dei fratelli Mattei: «Virgilio e Stefano, voi siete la Roma a noi più cara, la Roma proletaria e nazionale delle borgate; delle dolci borgate romane che si aggrappano alla città sacra e imperiale come tu, Stefano, ti aggrappasti a Virgilio: per non soffocare, per non mollare, per respirare». Poi, rivolto alla chiesa gremita: «Romani, sono caduti due soldatini; caduti nella guerra che non termina mai, nella guerra contro i barbari. Ordino per loro l’attenti. Poi il silenzio. Lo ascoltino, al di là di questo tempio, al di là di questa piazza, al di là di questa stessa città, ovunque, gli italiani di buona volontà». Parole che restituiscono verità laddove non è mai giunta giustizia. (da Il Tempo)