Il Danubio scorre lento tra il castello di Buda e i palazzi di Pest. Nei millenni il grande fiume ha visto tante, troppe cose per sconvolgersi e preoccuparsi, figuramoci se oggi si turba per delle semplici elezioni. Altrettanto sereno sembra Viktor Orbàn, il primo ministro della repubblica magiara che si prepara, il prossimo otto aprile, a rivincere, forse persino a trionfare. Gran parte dell’Ungheria è con lui e lui lo sà.
Una conferma, l’ennesima, si è avuta nell’anniversario dell’insurrezione del marzo 1848. Un evento lontano, 170 anni precisi, ma sempre vivo per gli ungheresi. Per ricordare la rivoluzione che fece traballare l’impero degli Asburgo ovunque immagini di eroi, di poeti, di ussari; nei grandi alberghi i turisti hanno trovato nelle camere le copie di “Budapest Where”, la patinata rivista dell’ente turistico, che invitava a ripercorre i passi degli insorti: “Walk like a rebel”.
E proprio giovedì 15 marzo, la data centrale delle celebrazioni, sotto una pioggia battente una folla enorme ha invaso il centro della capitale per ascoltare il leader. Ritto sul palco eretto davanti al Parlamento — un gigantesco palazzo neogotico, terzo al mondo per grandezza tra le sedi parlamentari —, Orbàn ha ricordato il passato e annunciato il futuro, rivolgendo parole di fuoco contro gli oppositori interni e i loro sponsors stranieri.
«L’invasore di oggi è ben più peggiore e subdolo di quello ieri. Da un lato vi sono milioni di noi con un sentimento patriottico, mentre dall’altra c’è l’élite globale. Quelli che vogliono portarci via la nostra Nazione. Ma gli Stati che non fermeranno l’ondata migratoria saranno invasi e persi». E ancora «C’è un progetto ordito da forze esterne, da poteri internazionali e dai loro complici. Queste elezioni non sono solo quattro anni di governo ma una scelta. Dobbiamo preparci ad affrontare il candidato di Soros. Ungheresi, alzate le vostre bandiere, la Patria è in pericolo, è tempo di combattere». Come nel 1848, come nel 1956.
Dalla folla applausi e inni. Orgoglio e fiducia. Una spettacolo forte, impressionante che, non a caso, i media occidentali hanno preferito oscurare. Orbàn per i politici, giornalisti e burocrati europei è un guastafeste, un personaggio ingombrante, un autocrate populista e chi più ne ha più ne metta… Ma le cose, come sempre, sono più complesse e vanno comprese, analizzate.
Innanzitutto lo spigoloso primo ministro non è piovuto dal cielo o sbucato dagli inferi. Nonostante i suoi 54 anni Orbàn è l’ultimo esponente dell’opposizione antisovietica degli anni Ottanta ancora sulla scena. Il suo debutto (pirotecnico…) risale inatti al 1989. Il 16 giugno di quell’anno infuocato, il morente regime kadariano fu costretto a tributare un solenne funerale a Imre Nagy e agli altri martiri della rivoluzione del 1956: per il partito comunista un tentativo estremo di smarcarsi da un passato ormai ingombrante e proporsi come garante di un cambiamento “morbido” e controllato.
Quella mattina trecentomila persone si raccolsero in piazza degli Eroi, il sancta sanctorum dell’Ungheria, mentre la televisione di Stato trasmetteva la cerimonia in diretta. La polizia era allertata. Nulla doveva turbare il clima di “riconciliazione forzata” e nessun riferimento al presente sarebbe stato permesso. Ma, in qualche modo, il giovane Viktor, capo di un gruppo studentesco, riuscì a intrufolarsi sul palco e a impadronirsi del microfono. In una manciata di minuti il ragazzo accusò il governo di aver “rubato il futuro” ad intere generazioni e chiese libere elezioni e l’immediato ritiro dell’esercito sovietico. Scoppiò il pandemonio, la folla iniziò ad applaudire freneticamente mentre i furibondi gerarchi lasciavano disordinatamente la tribuna. Quegli attimi segnarono la fine della dittatura rossa e l’inizio di una carriera straordinaria.
Trasformato il movimento giovanile in Fidesz (Unione Civica Ungherese) ed eletto in parlamento nel 1990, Orbàn si ritrovò presto all’opposizione. Non lo convincevano i conservatori di Antall e detestava i socialisti, nostalgici del “comunismo al gulash”. Quando nel 1994 i due partiti maggiori formarono una stramba coalizione, il giovane politico decise di svoltare su posizioni conservatrici e trasformare Fidesz in un partito di massa. Una scelta azzeccata che gli permise di vincere le elezioni del 1998 ma che gli costò l’inestinguibile ostilità dei poteri forti transnazionali e l’odio implacabile dell’opaco miliardario “filantropo”, americano ma d’origini ungheresi, George Soros. Da subito il primo governo Orbàn fu al centro di una violenta campagna mediatica con accuse di xenofobia, revanscismo, autoritarismo. Un delirio che, nonostante gli ottimi risultati ottenuti nelle successive elezioni (41,07 % nel 2002 e 42,03 nel 2006), ricacciò Fidesz all’opposizione per due legislature. Iniziò così per Orbàm una traversata nel deserto conclusasi nel 2010 con il ritorno trionfale (52,73 %) al governo della nazione e la riconferma del 2014.
Memore della precedente esperienza, Viktor decise per una rottura netta con il passato e attuò da subito una linea nazional-patriottica attenta ai caratteri cristiani della società ungherese (famiglia, patria, solidarietà sociale) e ostile al relativismo culturale neoliberale e ai parametri globalistici. In campo economico, dal 2010 il governo ha reagito all’invasività del Fondo monetario e della Banca internazionale, dell’Unione europea e delle grandi multinazionali con misure temerarie miranti alla formazione di un capitalismo nazionale produttivo inserito in una società “basata sul lavoro”, un modello contrapposto “all’assistenzialismo e alla speculazione finanziaria”. Tesi difficilmente digeribili per le élites euro-occidentali che non a caso hanno sfruttato l’irrigidimento ungherese sulla questione dell’immigrazione illegale per scatenare un nuova campagna d’odio.
Ma ciò che più infastidisce i mandarini dell’europeismo senz’anima e i retori della globalizzazione è il patriottismo anti comunista e antitotalitario di Orbàn e Fidesz, un categoria per loro incomprensibile. Eppure basterebbe vedere, sentire, parlare. L’Ungheria è terra d’invasioni, un’isola etnica e culturale da sempre stretta tra entità ingorde, poco amiche o ostili: germanici, slavi, mondo ottomano. È la storia. Tragicamente ripetiva e angosciante come ricorda la “Casa del terrore”, il museo di via Andrassy 60, il cuore di Pest. Nel palazzo, già sede del partito filo nazista delle Croci Frecciate, fu per anni il quartier generale della polizia segreta comunista, la famigerata AVH, un luogo di paura e morte. Nel labirinto sotterraneo i prigionieri venivano torturati, massacrati, uccisi in “nome del popolo”. Ogni piano, ogni stanza racconta quella lunga deriva alle comitive di studenti e alle famiglie che visitano, in commosso silenzio, il luogo dell’orrore. Un pellegrinaggio incessante e commovente che spiega meglio d’ogni analisi i sentimenti profondi e le scelte di un popolo. (da destra.it)