C’è una strana vicenda, balzata agli onori delle pagine culturali dei più grandi giornali italiani (prima Repubblica, poi Corriere e La Stampa), che è diventata la parabola perfetta di come questo Paese – ma verrebbe da dire soprattutto una certa classe politica e intellettuale – per quasi settant’anni ha trattato il tema della ricerca storica sulla Resistenza. Anzi, il “mito della Resistenza”, per dirla con Romolo Gobbi. Una vicenda in cui si intrecciano in maniera quasi indissolubile ideologia, menzogna, opportunismo e la tendenza, tutta comunista e ciellenista, di auto-nominarsi unici custodi della memoria.
Facciamo un passo indietro. La vicenda ruota intorno a un libro di Sergio Luzzatto uscito nei mesi scorsi: Partigia. Una storia della Resistenza (edito da Mondadori). Nel volume dello storico, di certo non imputabile di revisionismo, si racconta del “segreto brutto” che accompagnò Primo Levi sino alla fine dei suoi giorni. Nell’autunno del 1943 il futuro scrittore era in Val d’Aosta con una formazione partigiana e si rese protagonista di un fosco episodio sfociato nell’uccisione (mitragliamento alle spalle “alla sovietica”, dice lo storico) di due giovanissimi partigiani monferrini, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, di 18 e 17 anni. I due avrebbero violato alcune norme di comportamento della formazione armata (forse taglieggiando i valligiani) e per questo il comando della banda avrebbe deciso di eliminarli in modo sommario. Levi non partecipò materialmente all’omicidio (difficile chiamarlo diversamente) ma lo decise insieme agli altri. E per tutta la sua esistenza portò il doloroso peso di quel “segreto”, facendone solo cenno in alcune sue opere del Dopoguerra, senza però mai rivelare nulla.
Prima menzogna: per decenni i poveri Oppezzo e Zabaldano furono celebrati come vittime delle violenza nazifascista, benché tutti o quasi negli ambienti partigiani sapessero com’erano andate le cose. Un tacito patto omertoso che otteneva tre risultati in un colpo solo: metteva al sicuro i responsabili della giustizia sommaria, taceva sui comportamenti non sempre ortodossi delle formazioni partigiane nei confronti della popolazione civile (di episodi di furti, taglieggiamenti, stupri e vendette personali sono piene le cronache di quegli anni, come emerge dai libri di Giampaolo Pansa, ad esempio) e gettava altro fango sul nemico, sul “male assoluto”, sui fucilatori di ragazzini.
Partigia ha rotto il patto omertoso e poiché l’autore non è accusabile di nazismo-fascismo-revisionismo-antisemitismo (Luzzatto è infatti uno stimato docente universitario di storia, di origine ebraica e di provata fede antifascista) è scattata la difesa corporativa dei custodi della memoria. Intanto il libro non è stato pubblicato da Einaudi, casa editrice con la quale sono uscite le precedenti opere di Luzzatto, ma dalla “cugina” Mondadori (sempre dello stesso gruppo berlusconiano, ma di assai meno rigida osservanza antifascista).
In secondo luogo si è schierato il colosso Repubblica con un dotto e articolato intervento preventivo di Gad Lerner (lo si può leggere qui: http://www.gadlerner.it/2013/04/16/primo-levi-e-lossessione-di-sergio-luzzatto ) la cui sintesi è pressapoco questa: Luzzatto ha sbagliato a scrivere questo libro perché così si offende la memoria di Primo Levi. Punto e basta. Che la storia sia vera e documentata, al noto giornalista televisivo poco interessa.
Alcuni giorni fa su La Stampa a difesa di Primo Levi è intervenuto Alberto Cavaglion, docente universitario e affermato studioso dell’ebraismo, pure lui autore della scuderia Einaudi. Con un piccolo scoop, che faceva passare Luzzatto per un ingenuo, nella migliore delle ipotesi: «Nella biblioteca regionale di Aosta e in quella comunale di Brusson si può facilmente consultare un libretto ignorato da Luzzatto e, finora, anche dagli altri che si sono occupati del caso. Si tratta della “petite chronique” del curato Adolphe Barmaverain, Demi-siècle de vie paroissiale à Brusson , (Imprimerie Valdôtaine, 1970)». (qui l’articolo: http://www.lastampa.it/2013/06/02/cultura/la-verit-sul-segreto-brutto-WNC2VhOF7nktSgO32xBa1H/pagina.html )
In questo volumetto, spiegava Cavaglion, si scopre che i due giovanissimi partigiani furono fucilati dal loro capo perché avevano vessato e minacciato un’anziana ebrea viennese rifugiata in Valle, al punto di spingerla al suicidio. «Non solo l’esecuzione dei due, per quanto crudele, non appare più tanto smisurata – scrive Cavaglion – il motivo non era certo “futile” e probabilmente anche tutto il travaglio che Levi rivela nel racconto del Sistema periodico (una delle sue opere, ndr) va letto in altro modo». Ecco fatto! La memoria dello scrittore è salva e il buon nome dei partigiani pure, sembra dire il docente universitario.
Ma Luzzatto, che non ci sta a passare per bischero, il giorno dopo risponde per le rime. Tralasciamo il dotto scambio di accuse fra i due autori einaudiani: quel che importa è che il presunto scoop di Cavaglion viene demolito. Non solo perché il famoso diario del curato valdostano non è una fonte primaria ma un’accozzaglia di sentito dire, si dice, raccontano, dicunt, ferunt, tradunt… Ma perché il suicidio dell’ebrea polacca è datato 17 dicembre mentre la fucilazione di Oppezzo e Zabaldano risale al 9 dicembre. «Se queste furono le date – conclude Luzzatto – veramente i due ragazzi poterono essere fucilati – per punizione di soprusi da loro compiuti – otto giorni prima che la signora ebrea si suicidasse?». (Qui la risposta di Luzzatto: http://www.lastampa.it/2013/06/04/cultura/primo-levi-quel-suicidio-non-si-lega-ai-partigiani-EEmHmDK78XKytFu68VvIOJ/pagina.html )
La storia potrebbe chiudersi qui e sarebbe già un ben misero esempio di come, per quasi settant’anni, abbiano funzionato la ricerca storica, il rigore editoriale e la libertà di coscienza degli intellettuali italiani. Ma c’è un appendice ancor più interessante, che non riguarda i tromboni della cultura ufficiale bensì la gente comune. E rivela come a volte i cittadini siano migliori non solo di chi li governa, ma anche di chi pretende di educarli.
Su La Stampa di oggi compare un’altra paginata intera dedicata al “caso Primo Levi” e al suo “segreto brutto”. E a parlare questa volta sono coloro che ne hanno più diritto: i familiari di Luciano Zabaldano, il diciassettenne mitragliato alle spalle – “alla sovietica” – dai partigiani compagni di Primo Levi.
«Egregio direttore, non avremmo mai voluto intervenire – scrivono Albina, Bruna, Marina e Roberto Zabaldano, sorelle e fratello del giovane ucciso – ma il profondo dolore per le calunnie che abbiamo finora letto ci spinge a chiederle di pubblicare le nostre considerazioni». Per ragioni di spazio non si può riportare la lunghissima lettera dei congiunti, che tuttavia ci tengono a mettere in chiaro alcune cose:
1) Luciano proveniva da una famiglia povera, cresciuta però nel rispetto della roba altrui e nell’educazione cristiana che giudicava rubare un peccato grave.
2) Arruolato in Marina per motivi economici, dopo l’8 settembre era “sbandato” andando in montagna per paura dei rastrellamenti, non per convinzione ideologica.
3) Data la giovane età faceva spesso la spola con Torino per portare rifornimenti in montagna, se davvero avesse voluto rubare l’avrebbe fatto in quella occasione.
4) Aveva solo 17 anni ed era abituato ad ubbidire: se davvero aveva compiuto dei “prelievi forzosi” ai danni dei contadini è perché glielo avevano ordinato, «cosa assai probabile visto che, ovunque, i primi partigiani si approvvigionavano in modo non sempre lecito» (e questa è una citazione testuale della lettera).
5) Forse qualcuno ha mandato allo sbaraglio i due ragazzi e quando la situazione si è fatta pesante ha pensato bene di sbarazzarsi di loro. «Questo spiegherebbe la tempestività e il modo subdolo dell’esecuzione, le reticenze, l’omertà da parte degli stessi testimoni presenti, e non ci si venga a parlare di “coscienza” ma soltanto di criminale solidarietà tra individui che per giustificare un delitto non hanno esitato a sputare veleno sulle vittime» (e questa è un’altra citazione testuale).
6) Luciano non aveva idee comuniste (come scritto dal Luzzatto, ndr) né preparazione politica. «In famiglia l’unica cosa che si sapeva dei comunisti era che erano dei “senza Dio”, cosa intollerabile per noi credenti e praticanti. Da noi i comunisti erano aborriti più dei fascisti». (Terza citazione testuale).
7) «Questi individui saliti in montagna per fare i patrioti non hanno mai disturbato i fascisti, si sono limitati a rintanarsi (magari in un albergo) e con gli unici colpi sparati hanno tolto la vita a due poveri ragazzi. Bella vigliaccata! Altro che “coscienza”!». (Quarta citazione).
8) «Ma perché, ci domandiamo, eruditi di tal fatta si azzuffano per dimostrare che ciò che loro sostengono corrisponde a verità? Perché perseverano con le loro illazioni e fantasiose ricostruzioni tendenti a giustificare un crimine? Perché continuano a infangare in modo vergognoso la memoria di due giovani doppiamente vittime di quel triste e oscuro periodo? Forse per difendere un mito, forse per antagonismo cattedratico? (Quinta citazione).
Non c’è molto da aggiungere, con buona pace di Primo Levi e del suo “segreto brutto”, che tale era e tale rimane. Sipario sul “mito della Resistenza” e sipario sulla tragicomica casta degli intellettuali italiani.