Per la “Giornata mondiale della poesia”, il 21 marzo, non un poeta voglio ricordare ma una donna la cui vita fu poesia. Etty Hillesum, nata a Middlelburg in Olanda nel 1914 e lasciatasi morire ad Auschwitz nel novembre 1943.
Di lei restano il corpo delle sue lettere e il diario: la testimonianza di una ragazza che sceglie di morire con il suo popolo, di salire – lei dirà “cantando”- sul treno senza ritorno. Se non fosse stata persona, Etty Hillesum sarebbe stata un meraviglioso personaggio di Virginia Woolf o avrebbe fatto capolino tra i versi di Marina Cvtaeva e di Alda Merini. Oppure avrebbe dato grazia femminile all’animo controverso di Rainer Maria Rilke, il poeta che Etty leggeva e viveva avidamente. Etty conserva nella sua inquietudine, nel suo “gomitolo aggrovigliato”, tutte le risacche del mare agitato. Il suo movimento più impetuoso è quello del ritrarsi. Dentro se stessa, all’indietro, verso la primigenia nostra natura, laddove dimorano ingenuità e purezza. Natura e Storia sono i due limiti spazio-temporali in cui Etty agisce e sente. La Storia, sia che si manifesti nell’Olocausto sia che si incarni nel suo Dio ebraico, è il pretesto e il movente che fa emergere dall’oblio dell’inconscio la Natura e quindi l’essere la creatura umana votata al Bene. Perchè il Bene è ritorno a Dio. Nella giovinezza spensierata “Etty si chiedeva come mai sentisse nascere dentro di sé una sensazione primitiva, come se anche lei facesse parte dell’universo” . Poi, resa adulta dalla verità della Storia, Etty trova “nell’implacabile vento che violentava i lupini della brughiera” il senso ultimo della condivisione del dolore “Che cos’ era, lei, per non condividere il dolore con gli altri? Tutti gli altri. Persino con quelli che avevano deciso di sterminarli”. Ecco il nodo di Etty, la sua singolarità di personaggio e di testimone: aver affrontato la Shoah come viaggio dell’anima, come chiave di ricerca interiore, come risposta alla sua inquietudine. Il percorso di Etty approda a una forma di panteismo del dolore. Nasce la poesia ed è poesia d’amore. Etty spesso appare -i suoi scritti lo confermano- egocentrica, capricciosa, frivola: queste caratteristiche celano, prima che la violenza nazista si manifesti, un incondizionato bisogno di dare amore. Non si spiegherebbe altrimenti la passione e l’abnegazione per lo psicochirologo e cantante Julius Speier. Non si spiegherebbe tutto il suo comportamento nel campo di Westerbork, il campo di raccolta degli ebrei olandesi destinati alla soluzione finale in Polonia. Non si spiegherebbe l’affetto potente verso il fragile fratello Misha. Etty è un personaggio intensamente drammatico, anche perché incarna una visione dell’uomo quasi antistorica e antiletteraria. La poesia del dolore, la scrittura che nasce dal dolore parte da un presupposto, fondato il più delle volte sulle religioni, che l’uomo tende al Male più che al Bene. Etty rovescia questo presupposto: insiste a far vedere a quelli che la leggeranno, a se stessa mentre rilegge le sue parole, come anche nella più bruta barbarie esista la possibilità del bene futuro, del sorriso che caccia via le lacrime “E se sopravvivo, scriverò delle satire sui miei compagni, o delle brevi, esilaranti novelle”, del canto. Per il resto, nella sua figura si condensano tanti luoghi della letteratura della Shoah: la necessità della memoria e della testimonianza, l’abbrutimento e la disumanizzazione dei campi di concentramento, la perdita di identità, l’inspiegabilità, quasi metafisica e di sicuro metastorica, del regime nazista, persino l’esorcismo del riso.
Ho incontrato qualche giorno fa una scrittrice, una poetessa del pensiero e del cuore: Edgarda Ferri. E’ lei che ha riportato la vita di Etty Hillesum alla memoria in un libro delicato e struggente “Un gomitolo aggrovigliato è il mio cuore. Vita di Etty Hillesum”, pubblicato dalla Nave di Teseo, che ha scommesso su una storia di ebrei. Ancora. Perché il romanzo di Edgarda Ferri non è un’altra storia di ebrei durante il regime nazista. Almeno, non è solo questo. E’ il romanzo di una vita esemplare, una vita che arriva alla comprensione del senso stesso della vita. Etty nel suo francescanesimo offre anche un modello di femminilità, misto di sensualità libera e di severità etica. Edgarda Ferri racconta Etty Hillesum imponendosi una prosa magistralmente asciutta fino a cedere a un ritmo in crescendo che coinvolge la ragazza olandese e l’autrice stessa. La scrittura prende ampiezza e respiro (le frasi sono più lunghe e gli artifici retorici più frequenti) man mano che la vita di Etty si intreccia con quella del campo di Westerbork e finisce per coincidere col destino, suo e dell’umanità sofferente. La frase dalla pagina di Edgarda Ferri vibra come se fosse dotata di voce. La scrittura si fa oralità, giunge al segreto del racconto, al suo archetipo, alla poièsis. La poesia, i versi. E due versi suggellano, a parere di chi scrive, la vita di Etty Hillesum. Appartengono a “La Ginestra” di Giacomo Leopardi “E piegherai sotto il fascio mortal non renitente Il tuo capo innocente”. La poesia, ancora…
L’autore.
Edgarda Ferri, scrittrice, saggista, giornalista, ha all’attivo numerose biografie, tra cui quelle di grandi donne come Maria Teresa d’Austria, Giovanna la Pazza, Caterina da Siena, Letizia Bonaparte, Matilde di Canossa, Eloisa, Flavia Giulia Elena, di artisti come Piero della Francesca, di condottieri e architetti come Vespasiano Gonzaga. Si è occupata di storia contemporanea in L’alba che aspettavamo e Uno dei tanti. Ha pubblicato inoltre Klimt, le donne, l’arte, gli amori, Il cuoco e i suoi re e Guanti bianchi. Collabora con “la Repubblica”.