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Cultura. Perché leggere Julius Evola con sottofondo di musica jazz

by Francesco Marotta
25 Gennaio 2018
in Cultura
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Julius Evola
Julius Evola

“Si potrebbe constatare che gli artisti, lungi dall’essere i nevrotici di cui si parla talora, sono, al contrario, più sani psichicamente di molti uomini moderni. Essi hanno compreso che un Vero Rico-minciamento non può aver luogo che dopo una Vera Fine. E, primi fra i moderni, gli artisti si sono dati a distruggere realmente il loro Mondo, per ri-creare un Universo artistico nel quale l’uomo possa ad un tempo esistere, contemplare e sognare”.

Questa era l’opinione di Mircea Eliade, impressa a pagina 100 del suo saggio Mito e realtà, edito da Boria Editore nel 1966. Invece, discorrendo di novità molto più recenti, dal mese di novembre 2017, possiamo finalmente conoscere quale fosse il pensiero di Julius Evola sulla musica. Il volume Da Wagner al Jazz. Scritti sulla musica 1936-1971 di Julius Evola (a cura di Piero Chiappano, prefazione di Massimo Donà), fornisce un quadro d’insieme abbastanza esaustivo.

Innanzitutto, bisogna sfatare il mito wagneriano e le tiritere “tradizionaliste” di un certo ambiente militante, qualsiasi sia la provenienza. Infine, cosa non da meno, sforzarsi mentalmente e riuscire a smontare quelle supposizioni che nulla hanno a che fare con l’ambito biografico e di riflessione su Evola; spesso, ridotte ad un “classicismo” rabberciato sui gusti del Nostro e limitato, solo, all’ascolto della musica classica e dei generi operistici.

“Il fascismo in Italia e il nazismo in Germania stavano per mettere al bando il Jazz. […] il Nostro, nel trovarsi a fare i conti con quelle strane melodie, ossia con i ritmi irregolari e le inedite sonorità portate alla luce dal multiforme universo di una musica che era venuta alla ribalta nei quartieri malfamati di New Orleans, a Chicago e Kansas City, ha una reazione di ben altro spessore e di tutt’altra natura !”

L’interesse per le sonorità della musica jazz risale ancor prima della “filosofia del jazz”, pubblicata anche sul “Corriere Padano” e riproposta in maniera edulcorata nel luglio del 1936. Il jazz cui Evola dedicò un attento ed esaustivo approfondimento, viene interpretato (qui siamo d’accordo) con delle sfaccettature inusuali. In questo scritto che vi proponiamo, emerge a differenza di un Adorno ideologicamente incline a una riflessione progressiva, quanto Evola fece invece una netta distinzione tra una sonorità ritmica che aveva in sé degli accenni di una potenza incondizionata dell’Origine e del suo esatto opposto.

Ovvero, tutto ciò che ruotava attorno ad un certo cosmopolitismo di maniera, parecchio felice di sollazzarsi con il ritmo sincopato delle nuove traiettorie della musica jazz. Seguendo però, esclusivamente il corollario delle mode di allora. E poco importa, se lo spartito era parte della fine delle suggestioni esotiche e semi-coloniali, che scandirono il tramonto della borghesia di fine ‘800 e di inizio ‘900. L’importante, era danzare sulle note e sugli accordi glamour di una mondanità bacchettona e, imbeccata, dalle prassi arbitrarie degli influencer di allora.

Ma se Londra e New York, sublimavano solo alcune delle complessità “fonetiche” del jazz, scopriamo grazie a Piero Chiappano, cantautore e scrittore, leggendo la prefazione di Massimo Donà, il pensiero inedito di Julius Evola sulla musica in generale. Dagli scritti che vanno dal 1936 al 1971, pubblicati sul “Roma”, il “Corriere Padano”, “Il Regime Fascista”, “Il Popolo Italiano” e “Rivolta Ideale”, emerge la dissociazione evoliana ai diktat musicali ed alle interpretazioni concettuali dei monopoli di oltremare e delle chiusure stagne dei totalitarismi del XX secolo.

Alle parafrasi del free jazz degli anni sessanta, preferì il senso del «Ritmo» degli albori (1915-1940) e del magico periodo del bebop che imperversò nel 1945. Il suo fu un accostamento spontaneo e con tutte le precauzioni del caso, seguite da una metafisica sensoriale che vi ruotava attorno, individuandola, ad una «Origine» da dibattere. E viceversa, a proposito degli anatemi ideologici sulla musica di Wagner, indubbiamente, scelse di muovere una critica argomentata alle opere e allo stile musicale…

“Laddove l’arte tradizionale o “sacra” ( “sacra”, però, non in senso semplicemente religioso e ecclesiastico: epopee, simboli, ecc. rientrano in tale idea più vasta del “sacro”) spiritualizzava l’umano, l’arte, di cui ora parliamo, viene solo a umanizzare e a bagatellizzare perfino lo spirituale”.

Per ciò che riguarda invece la canzone melodica italiana, dai Festival di Sanremo ai Cantagiro del 1962 in poi, contrappose lo studio dell’epoca e della musica del momento; riscontrando delle tracce “tradizionali” nella musica/danza dell’Europa Centrale e Orientale, intessuta di parecchie percezioni primigenie. Del tutto assenti nella canzone napoletana e nelle melodie sentimentali, nostalgico-regressive e mielose, della canzone melodica italiana.

Dunque, se per Martin Heidegger nel suo Essere e tempo, «l’origine di qualcosa è la provenienza della sua essenza» e nel testo della prima stesura della conferenza intitolata Dell’origine dell’opera d’arte, svoltasi alla Kunstwissenschaftliche Gesellschaft di Friburgo in Brisgovia il 13 novembre 1935, affermò che «la creazione d’arte sorge dal “combattimento spirituale” dell’artista», in questa raccolta degli scritti sulla musica di Evola, emerge quel quid in più per gli estimatori della trascendenza.

Un Julius Evola che, come sappiamo, amava viaggiare, incamminandosi verso l’Austria dove ritrovò le pulsioni del carnevale viennese, prima dell’annessione alla Germania. Frequentando i locali notturni di Amsterdam e quelle strane avanguardie musicali già così diverse dalle suggestioni cantateci in Dans le port d’Amsterdam da Jacques Brel. Ma, nonostante i fumi che ammorbavano i venti, riuscì a cogliere in quelle donne leggiadre e nelle giovani donzelle, intente a cimentarsi in una danza di non senso ispirata dalla nuova ondata jazz, quello che ritrovò nei violini zigani e nelle danze “estatiche” di Buda e di Bucarest.

Quella percezione del «Ritmo» dimenticata, ormai impopolare, che si perde nella notte dei tempi ma è presente nella natura ciclica delle cose. Ed è così che il “Barone”, seguito come un’ombra dall’idiosincrasia di un periodo lungo trentacinque anni (contestualizziamo ma pensiamo ad oggi), mostrò in che misura era facile per lui osservare ed esplorare un qualcosa al limite della damnatio memoriae a riguardo di un genere musicale.

Distinse, l’americanizzazione imperante dell’epoca, dalla sorgente di un contesto sociale e percettivo che diede vita al jazz in America. Evidenziando, l’industrializzazione e la massificazione di là da venire della musica. Come avrete modo di constatare, non si interessò solo alla musica afro-americana ma anche ad altri stili molto diversi uno dall’altro: raffrontandoli a modo suo e senza perdersi in inutili comparazioni sui corsi degli eventi artistico-musicali. Vale a dire, rifacendoci a ciò che ha scritto Ernst Jünger, cioè ammirando la potenza dell’archetipo ed al contempo, disinteressandosi delle altre implicazioni affibbiategli, erroneamente.

*Da Wagner al jazz. Scritti sulla musica (1936-1971) di Julius Evola (A cura di Piero Chiappano e con la Prefazione di Massino Donà; Editoriale Jouvence, 07/12/2017, Ppgg. 181, euro 16.00)

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Francesco Marotta

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Tags: Barbadillojazzjulius evolamusicanew orleanspolitica

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