Il 24 febbraio 1937 esce dalla fabbrica torinese Lancia di Borgo San Paolo la prima berlina Aprilia, ancora sprovvista di predellini, con volante nero a tre razze e strumentazione a quattro strumenti circolari su fondo nero. Le ruote sono del tipo a disco, piene, in acciaio con cerchi da 140 x 40. La gamma di colori prevista è: grigio, blu, nero, amaranto, verde. Gli interni sono del classico, famoso panno Lancia grigio-beige. Il bagagliaio, accessibile dall’esterno, può contenere una ruota di scorta e due valigie o due ruote e una valigia. Prezzo in Italia al debutto: Lire 26.600. Nel 1936 una Fiat 500 Topolino costava Lire 8.900 (non 5 mila, come aveva invocato il Duce).
Nove giorni prima, la mattina del 15 febbraio 1937, all’età di soli 55 anni, era morto improvvisamente a Torino, vittima di un attacco cardiaco, forse stroncato dal febbrile lavoro, Vincenzo Lancia, il creatore della fabbrica e di automobili straordinarie, come la Lambda e l’Aprilia.
Il capolavoro di Lancia (e del progettista Battista Falchetto in primo luogo) resterà l’Aprilia, un’automobile così moderna da stupire perfino gli inglesi (“Mai la tecnica aveva osato tanto”, sentenziò Autocar, la più antica rivista automobilistica del mondo). I quali, infatti, numerosissimi l’acquistarono nonostante l’alto prezzo (il doppio di qualsiasi altra 1300 inglese dell’epoca) e nonostante l’aria che spirasse allora nei confronti dei prodotti italiani, dopo la Guerra d’Etiopia e le Sanzioni ginevrine. Per l’Aprilia, Lancia aveva voluto che Falchetto gli progettasse una linea “veramente aerodinamica”. Furono presi accordi con la Pinin Farina ed il Politecnico di Torino e fu messa in opera una galleria del vento dove vennero provati una serie di prototipi in scala.
Con una linea filante ed aerodinamica (erano stati perfino aboliti, con quasi cinquant’ anni di anticipo, i gocciolatoi sopra le porte, raggiungendo un coefficiente di resistenza di 0,47), una bella coda rastremata, quattro ruote indipendenti, una carrozzeria leggera eppure robusta e spaziosa, la vettura stupirà – in quel 1937 – il mondo intero. L’opera postuma del grande Vincenzo Lancia si costituì nel lancio al mercato di una delle realizzazioni più innovatrici e moderne dell’automobile. Era nata l’Aprilia.
Nel 1934 Lancia brevettò un progetto di autovettura a tre posti frontali ardito ed avvenieristico anche oggi. Il disegno illustra un veicolo aereodinamico a forma di uovo con posto di guida centrale avanzato, a destra ed a sinistra del quale, ma arretrati, vi sono altri due posti singoli ed infine dietro, sempre in posizione centrale, vi è un altro largo posto. Si dice che essa era stata la prima idea dell’Augusta, accantonata perchè troppo al di fuori ed al di là dei gusti dell’epoca, tuttavia, pare abbia costituito il germe dell’Aprilia. Alla fine di quell’anno la produzione Lancia si articolava sull’Augusta, sull’Artena, sull’Astura e sulla Dilambda, ancora costruita su richiesta: le vettura, viste l’una vicina all’altra, si assomigliavano un po’ tutte, per cui si avvertiva l’esigenza di qualcosa di nuovo, qualcosa che replicase i fasti della Lambda. Tale veste non poteva esser assunta dall’Augusta dalla linea ancora classica e non più rispondente alle proposte stilistiche e alla conseguente evoluzione dei gusti che si stavano evidenziando: ricordiamo che di lì a poco anche la Fiat avrebbe rotto colla tradizione presentando nel 1935 la 1500 e nel 1936 la Topolino. Si pensava quindi ad un’auto rivoluzionaria, ardita, anticonvenzionale, aerodinamica, in grado di fornire prestazioni medie superiori con una potenza limitata, stabile, maneggevole, veloce e fornita di ripresa. Fu così che Monsù Vincenzo Lancia, riuniti i propri collaboratori, fissò le caratteristiche del nuovo modello: peso ridotto (non oltre i 900kg) e linea fortemente aerodinamica, scocca portante, ampio abitacolo per cinque persone, sospensioni indipendenti sulle quattro ruote, motore a V stretto sistemato in posizione avanzata per contenere lo spazio destinato alla meccanica, cilindrata fra quella dell’Augusta e i 1500 cc. Il compito era davvero all’epoca molto arduo, ma lo staff dirigenziale non si perse d’animo e si diede alacremente all’opera. Direttore generale della Lancia era l’ing. Manlio Gracco, direttore tecnico l’ing. Giuseppe Baggi, direttore d’officina il sig. Alghisi. L’ufficio esperienze era diretto dal Cav. Battista Falchetto per la parte generale dei veicoli, dagli Ingg. Giuseppe Sola e Verga per i motori; collaudatore “Vigin” Gismondi. Iniziati gli studi su modellini presso il laboratorio aerodinamico di quest’ultimo, i disegni iniziali si concretarono in un modello in scala naturale eseguito in legno. Esteticamente esso presentava una lunga coda, il raccordo fra tetto e fiancate di raggio molto lungo, che dava una impressione di notevole rotondità al padiglione, i parafanghi posteriori chiusi: particolari tutti che le conferivano un aspetto, da…. barca rovesciata. A Vincenzo Lancia non piacque esteticamente e ordinò che il raggio di raccordo fra tetto e fiancate fosse ridotto onde dare al padiglione maggior piattezza, ordinò pure che la coda fosse accorciata in modo da rendere la vettura più compatta. Per gli stessi motivi non gli piacque il taglio delle portiere, che era rettilineo lungo la linea di incernieratura, e lo volle curvilineo perchè si armonizzasse con l’andamento del padiglione, il che costrinse Falchetto ad escogitare un particolare sistema di cerniere con perni a sfera inclinati.
Altre novità dal punto di vista aerodinamico, oltre la coda sfuggente, furono: i fari, carenati e collocati sui parafanghi, la superficie inferiore liscia e senza incavi, il parabrezza molto inclinato, il sistema di aerazione a doppio vetro, realizzato con piccole semilune fisse di cristallo sistemate nella parte superiore dei finestrini verso l’esterno.
La scocca fu studiata in modo da risultare il più leggera e rigida possibile e così: i fianchetti del motore furono conformati in modo da servire da passaggi ruota, le lamiere furono ridotte di spessore (8/10 per i rivestimenti e 12/10 per la struttura portante), e in alcune parti rinforzate con piegature a croce, il tunnel della trasmissione cosituì, al centro del pavimento, una struttura scatolata. Le porte, come sull’Augusta, si aprivano ad armadio senza montante intermedio. La particolare conformazione degli scrocchi impediva alle porte vibrazioni e scuotimenti e contribuiva, quando erano chiuse, all’irrigidimento della struttura. Alle prove torsionali la scocca denunziò un valore di cedimento di soli 10 primi di grado. Ad una prova di carico per verificare se la scocca poteva subire deformazioni permanenti, questa fu appoggiata in corrispondenza degli assi delle ruote e quindi progressivamente caricata al centro con pesi di piombo finchè non si produsse lo strapo di un punto elettrico di saldatura: il peso raggiunto fu di 4500 kg. e le lamiere dimostrarono di non aver subito alcuna deformazione permanente. Intanto nell’inverno 1934-35 l’equipe dell’Ufficio tecnico cominciò a disegnare il motore a quattro cilindri, sempre a V stretto, con una testata molto originale (coperta da molti brevetti) con camere emisferiche e dotata di un solo asse a camme con una particolare e complicata distribuzione, ciò al fine di poter mantenere l’angolo fra le valvole di 45°. Anche il posizionamento delle candele fu risolto con l’invenzione di lunghi isolatori (165mm) che, penetrando dal di sopra il coperchio della testata, raggiungevano le candele avvitate in un foro posto al centro del cielo della camera di scoppio: sul coperchio della testa gli isolatori erano fermati da un tapo isolante con un innesto a molletta provvisto di guarnizione per impedire la fuoriuscita dell’olio, dopo poco tempo il tutto fu sostituito da un isolatore in un sol pezzo: le candele si trovavano quindi praticamente a bagno d’olio. Per accrescere la leggerezza, il monoblocco era in alluminio, con le canne in acciaio riportate e le bielle, sulla cui testa erano stati ricavati direttamente i cuscinetti, erano di lega leggera. Al fine di rendere ancora più compatto il gruppo motore e per farlo contenere nell’esiguo spazio riservatogli, il radiatore venne montato solidamente al motore, in modo da poterlo tenere molto ravvicinato, la dinamo inserita al centro di questo e sul suo albero (asse dell’indotto) calettato il ventilatore in lega leggera a due pale, che era comandato da una cinghia trapezioidale azionante anche la pompa dell’acqua posta sotto il radiatore. In tal modo, al contrario di tutti gli altri veicoli, essendo stata eliminata ogni possibilità che le vibrazioni del motore, elasticamente sospeso, potessero portare il ventilatore troppo vicino alla massa radiante a contatto con la stessa. Si potè così ridurre a pochi centimentri la distanza tra ventilatore, radiatore e motore accorciando notevolemente le tubazioni di collegamento. La stessa dinamo, in tal modo, godeva di eccellente accessibilità e raffreddamento. Per le medesime considerazioni la pompa benzina, collegata al blocco motore da un lungo supporto, sporgeva al di sotto del radiatore sul davanti, ed era quindi facilmente accessibile ed esposta all’aria e lontata da fonti di calore (http://www.registroaprilia.it/lancia-aprilia).
L’idea del patron era stata concreta ed assennata: l’Aprilia telaio monoscocca e sospensioni indipendenti per ogni ruota, è spinta da un motore V4 (18°6’40”), cm3 1351,74 (alesaggio 72,00 mm – corsa 83,00 mm), anteriore, longitudinale, monoblocco; blocco cilindri in alluminio con canne in ghisa dura riportate; testa cilindri fusa in ghisa, chiusa superiormente da un coperchio di alluminio (condotti d’aspirazione posizionati sul lato destro del motore, condotti di scarico posizionati sul lato sinistro: la testata è del tipo “a flussi incrociati”); camere di scoppio emisferiche con candele (ricoperte da isolatori) in posizione centrale; albero motore in acciaio temperato su 3 supporti; pistoni in lega d’alluminio; bielle in duralluminio; il blocco motore-cambio è fissato alla scocca tramite tramite due piccole balestre per lato. Distribuzione valvole in testa, inclinate (mantenenti un angolo di 45° tra loro) azionate da bilancieri e puntalini; un albero a camme in testa, centrale, comandato da una catena silenziosa con tenditore automatico. Freno idraulico tipo Lockheed a pedale agente sulle 4 ruote, con ganasce ad espansione; i freni anteriori sono montati sulle ruote, quelli posteriori sugli alberi laterali all’uscita dal gruppo differenziale, al fine di ridurre le masse non sospese e migliorare così la tenuta di strada.
L’Aprilia viene presentata al Salone di Parigi (che si apre il 1º ottobre 1936) con il nome di “Ardennes” (la catena montuosa che separa la Francia dal Belgio) e, subito dopo, ai Saloni di Londra (15 ottobre) e di Milano (28 ottobre), col suo nome italiano, “Aprilia”.
Pare che al Salone di Parigi, Henry Ford attenda la chiusura serale al pubblico per curiosare, di nascosto, attorno e sotto l’ “Ardennes” esposta: leggenda vuole che, scoperto dai custodi e redarguito prima d’essere riconosciuto, commenti “era l’unica macchina del Salone per la quale valeva la pena di farmi correre il rischio di fare una figuraccia. L’asse posteriore di quest’automobile è la cosa migliore del Salone”. In Detroit avevano tenuto a lungo una Lambda smontata per analizzare le innovazioni di una vettura moderna europea!
Il suo potente motore non avrà rivali neppure nelle corse, nella classe 1500 cm³. Nell’agosto 1939, infatti, vede la luce la seconda serie (con alcuni aggiornamenti tecnici ed estetici, tra i quali la calandra del radiatore più curva, ed una maggiore gamma di colori) ed il motore passa da 1352 a 1486 cm3: la potenza rimane sostanzialmente invariata, ma migliorano le doti di coppia.
Nato a Fobello, un piccolo paese della Valsesia, in Piemonte, il 24 agosto 1881, quarto ed ultimo figlio di una famiglia agiata – il padre era un imprenditore di carne in scatola e dadi per brodo – Vincenzo venne preso giovanissimo dalla passione per i motori, riuscendo a strappare al padre l’autorizzazione di lavorare come ragioniere e meccanico presso l’officina torinese di Giovanni Battista Ceirano. A soli 18 anni, Vincenzo intreccia il suo destino con la più grande azienda torinese di autoveicoli, la Fiat. Dopo un primo periodo da collaudatore, Lancia inizia a correre, cogliendo il primo successo della storia Fiat nella Torino Sassi-Superga del 1902. Il suo carattere di guida è irruente. Le cronache raccontano di un uomo molto meticoloso ed esigente nella sfera professionale e totalmente diverso nel privato: gioviale, amante delle mangiate in buona compagnia e della musica, in particolare di Wagner.
L’atto costitutivo della Lancia reca la data del 27 novembre 1906: quel giorno, in Torino, il notaio Ernesto Torretta formalizza la costituzione di una società in nome collettivo da parte di Vincenzo Lancia e Claudio Fogolin: la Lancia & C. Il capitale iniziale era di modesta entità (100.000 Lire) ed i due soci vi avevano partecipato in parti uguali. Vincenzo Lancia era già molto noto nell’ambiente automobilistico in virtù delle prestigiose affermazioni sportive. Claudio Fogolin era invece, più semplicemente, un buon amico, che nel 1904 era stato negli Stati Uniti per approntare la prima officina Fiat a New York. Lancia aveva deciso da tempo di passare al ruolo di costruttore. La neonata società prese in affitto una prima officina (un vecchio capannone occupato sino a qualche mese prima da un’altra fabbrica automobilistica torinese, la “Itala” dei fratelli Ceirano), in via Ormea angolo via Donizetti. Lancia si occupava della parte tecnico-produttiva, mentre Fogolin della parte commerciale. Friulano di San Vito al Tagliamento, nel 1918 lasciò l’azienda. Nel 1943 sarà nominato Segretario del Fascio Repubblicano del locale Comune e l’anno successivo Commissario Prefettizio. Il 27 aprile 1945 Fogolin fu prelevato e fucilato da partigiani.
Nello sviluppo dell’industria, Lancia mette tutte le sue energie, le sue conoscenze e le sue intuizioni, sfruttando anche le sue capacità di collaudatore maturate negli anni precedenti. Per questa sua attività intensissima rinuncia in parte anche alla sua vita privata, sposandosi solamente nel 1922 con Adele Miglietti, la sua segretaria; negli anni successivi ebbe con lei tre figli: Anna Maria, Gianni ed Eleonora. Vincenzo Lancia era un uomo corpulento, energico e generoso: quando, nel 1906, lo stabilimento aveva la porta d’ingresso troppo stretta per far uscire la sua prima automobile prodotta lui non aveva sentito storie: aveva preso una mazza ed aveva allargato la porta abbattendo pezzi di muro, con le sue mani. Così la Lancia Modello “Alfa” aveva potuto compiere il suo acclamato ingresso in società: era un’auto signorile, ben rifinita, con soluzioni tecniche all’ultimo grido.
Al fine di poter trasferire l’attività in aumento – fino a quel momento concentrata negli angusti spazi di via Ormea e corso Dante – Vincenzo Lancia procedette all’acquisto di strutture industriali dismesse in Borgo San Paolo, nel 1910. Con l’apertura della nuova fabbrica, la produzione Lancia si estese presto anche alla fabbricazione di veicoli industriali fra cui camion, autotelai per autobus e mezzi militari su commissione del R. Esercito. Sulla spinta della costante crescita delle attività, si definì ben presto, per l’impianto produttivo, un considerevole aumento della superficie occupata, che raggiunse, tra gli anni Venti e Trenta l’estensione compresa nell’area tra via Lancia, via Caraglio, via Renier, via Issiglio, corso Rosselli e corso Trapani, grazie pure all’inglobamento delle strutture della fallita ditta Chiribiri. la Lancia vi è in parte rimasta fino al 2007.
Nello smozzicato Amarcord della mia infanzia ricordo dei parenti di mia madre, discendenti di famiglie modeste, di origine astigiana, inurbatesi in Torino all’inizio del ‘900, in coincidenza con l’esplosione industriale della vecchia capitale subalpina, che in parte ancora vivevano in quel quartiere, abitato per la maggior parte da un ceto medio discendente della vecchia classe lavoratrice. Culla di un’orgogliosa “aristocrazia operaia”, spesso in giubbotto di pelle (normalmente era anche motociclista). Avevano, i loro genitori, lavorato a pochi isolati da casa, in quegli stabilimenti Lancia della quale essi, approdati a una condizione borghese, con orgoglio ora guidavano gli ultimi modelli!
Negli anni seguenti Lancia si sarebbe resa celebre con la Lambda, un’automobile di alta gamma, prodotta in nove serie, dal 1923 al 1931. Il primo dei due capolavori di Vincenzo Lancia (il secondo sarà l’Aprilia), in quanto le numerose ed importanti innovazioni tecniche che la caratterizzano schiuderanno orizzonti all’epoca impensati per la costruzione automobilistica. La più rivoluzionaria è la soppressione del telaio convenzionale a longheroni sostituito da una membratura portante in lamiera imbutita, disposta in maniera tale da far lavorare la scocca della vettura come una trave unica. Il pianale risulta sensibilmente abbassato perché l’albero di trasmissione, abbandonata la classica sistemazione al di sotto del pavimento, è posizionato in un tunnel che passa all’interno dell’abitacolo (i passeggeri, dunque, vengono a sedere ai lati dell’albero di trasmissione anziché al di sopra di esso). Secondo la testimonianza di Pinin Farina, l’idea della scocca portante sarebbe venuta al patron Lancia osservando la struttura di una nave in navigazione (Cfr. Lorenzo Morello, LANCIA. Storie di innovazione tecnologica nelle automobili, Torino, 2014, pp. 71 sgg. e Bibliografia).
Iniziava la fortunata stagione delle Lancia intese come auto innovatrici, che ad ogni nuovo modello introducevano brevetti e soluzioni capaci di spiazzare la concorrenza italiana, francese, inglese, tedesca ed americana. “In fondo”, amava sempre ripetere Monsù Vincenzo, “con le automobili non c’ è che una cosa che conti: la qualità”.
Alla Lambda seguì l’Augusta. Tutto il 1930 ed i successivi 1931 e ’32 furono travolti dallo “tsunami” economico mondiale dopo il Black Thursday del 1929 a Wall Street. In Italia, ed in particolare in Lancia, ci si rese subito conto che il periodo d’oro delle esportazioni era finito. Alla fine degli anni venti il 75% della produzione Lancia ed il 66% della produzione Fiat erano destinate all’estero; tutto questo stava ormai rapidamente volgendosi alle spalle; durissime barriere doganali seppellivano l’età d’oro del libero scambio. E l’industria interna faceva già i conti con la crisi occupazionale e la produzione invenduta. Il 1929, anno del crollo della borsa di New York, vide la crisi di molte fabbriche americane e non risparmiò neppure la nostra gloriosa Isotta Fraschini, che fu costretta a svalutare il proprio capitale: messo il veto dal Governo all’acquisto da parte di Ford, su pressione dei fabbricanti italiani, l’Isotta Fraschini venne condannata ad una rapida, inarrestabile decadenza.
Non erano buoni tempi per l’auto. Diatto, Bianchi, Ansaldo, Itala, OM scompaiono anch’esse nel giro di pochi anni. Anche perchè il Governo di Mussolini aveva inasprito la tassazione per le cilidrate elevate e proceduto nel 1934 a rinnovare l’Imposta patrimoniale straordinaria. Inoltre, alla pari di altri Paesi, dal 1934 tra gli obbiettivi principali della politica economica venne posta l’autosufficienza agricola, industriale, nel reperimento di risorse e, più in generale, l’indipendenza economica nazionale. Furono decise significative tariffe doganali e barriere commerciali per aumentare la competitività dei prodotti sul mercato interno. Il Fascismo adottò, inoltre, una politica di spesa pubblica keynesiana per stimolare l’economia attraverso il settore pubblico. Ma, ovviamente, le nostre esportazioni subirono analoghe, reciproche misure straniere.
Perché venne dato il nome di “Aprilia” alla nuova vettura Lancia, interrompendo la tradizione delle lettere greche? La spiegazione è politica e risiede nel progetto della città di Aprilia, nel Lazio, la quarta in ordine di fondazione tra quelle costruite nelle aree paludose bonificate dell’Agro Pontino durante il Fascismo, ed a differenza delle prime tre (Littoria, Sabaudia, Pontinia) nasceva al limite sud dell’Agro Romano e non nell’Agro Pontino. La data di istituzione del Comune è il 25 aprile 1936 (da cui il nome), due anni dopo l’istituzione della Provincia di Littoria. Benito Mussolini la inaugurò il 29 ottobre 1937.
Detto dell’originalità ed eccellenza della nuova straordinaria auto della Lancia,
sarebbe stolto non riconoscere quanto l’Aprilia debba, in termini di suggestioni aerodinamiche e stilistiche, ad un prodotto d’Oltreatlantico, la Chrysler Airflow del 1934.
La stessa “forma a uovo”, ma meno estrema, più misurata, quasi austera, in armonia con
la tradizione ed il momento politico italiano delle guerre, delle sanzioni, dell’autarchia.
Lancia Aprilia (1937) e Chrysler Airflow (1934)
Mi pare al riguardo necessario ripercorrere previamente, per sommi capi, la filosofia dell’auto nel Nuovo Continente, specialmente il car design americano.
A differenza di quanto avviene in Europa, negli Stati Uniti l’auto è precocemente vista come un oggetto frutto di un processo di industrializzazione e mercificazione ed è perciò soggetta ad una politica di fabbrica codificata, seguendo precise regole di standardizzazione. Le auto americane devono essere fatte per il popolo (mentre nello stesso periodo in Europa erano beni di lusso): questo pensa Henry Ford iniziando la rivoluzione del suo leggendario Modello T, presto imitato da altri costruttori.
Le auto devono essere Attraenti, ma soprattutto Affidabili, Non soggette ad un rapido invecchiamento, Economiche, Efficienti. Si mortifica in tal modo il concetto di design, di differenziazione, a vantaggio di un concetto di uguaglianza, riconoscibilità di prodotto e standardizzazione. Le Case costruttrici statunitensi producono in catena di montaggio grandi quantitativi di esemplari uguali ed affidabili. Certo, esiste l’alta gamma, una nicchia di prodotti cari per un pubblico ridotto. Ma non è su di esso che puntano i colossi dell’auto, le Big Three di Detroit, Ford, GM, Chrysler, e non solo.
A metà degli anni ’20 il mercato delle autovetture risulta però ormai saturo e la filosofia della standardizzazione è poco adatta per stimolare nuovi, ingenti acquisti. Nel 1923 diventa Direttore Generale della General Motors Alfred Sloan. Egli idea un sistema per rispondere al problema della saturazione del mercato e generare nuova domanda. Sloan teorizza il concetto di ‘obsolescenza programmata’ (built-in obsolescence), una politica industriale volta a definire il ciclo vitale, la durata di un prodotto in modo da renderne la vita utile limitata ad un periodo prefissato. Il prodotto diventa dopo un certo tempo obsoleto, “fuori moda”, in maniera da giustificare l’entrata nel mercato di un modello nuovo, come oggi vediamo succedere specialmente nel settore dell’informatica.
Sloan lancia quell’anno un nuovo modello di Chevrolet dopo aver fatto qualche piccolo ritocco alla carrozzeria ed averlo promosso capillarmente, allontanandosi da logiche produttive troppo rigidamente legate alla standardizzazione, all’imitazione reciproca. La trovata pubblicitaria è quella di lanciare al mercato un modello all’anno, basandosi su innovazioni stilistiche. Le nuove parole d’ordine: Stile, Comfort, Colore.
È una sorta di spartiacque nella storia dell’automobilismo statunitense: da questo momento in avanti sarà il design a spadroneggiare, con modelli sempre più ingombranti e bizzarri, ispirati all’aviazione (o addirittura a naso di pescecane, come fu per la Graham “Sharknosed” del 1938), non per esigenze veramente aerodinamiche, ma stilistico-estetiche. Gli stilemi tipici dell’aviazione verranno trasferiti massicciamente alle auto, non per offrire all’aria la minima resistenza, ma essenzialmente emozionali, in un Paese che con la vittoria nella WWII sta concretizzando il suo “Destino Manifesto” di dominio mondiale. In quella direzione vanno le famose “pinne”, introdotte sulla Cadillac dal 1948, destinate ad essere un segno distintivo delle vetture americane per oltre un ventennio di massicci sprechi di acciaio e benzina. Di eccessi pacchiani, nelle linee e dimensioni, nelle vistosissime cromature, negli assetati motori a 8 cilindri.
Nel 1934 la Chrysler lancia l’Airflow. Quest’auto è l’unica ad avere una reale base aerodinamico-scientifica. Walter Chrysler si serve dei consigli di Orville Wright, pioniere dell’aviazione, e prova la carrozzeria nella galleria del vento. Oltre ad una forma slanciata la vettura ha una scocca portante, è bassa e le ruote sono posizionate agli angoli, ottimizzando l’abitacolo, ma ancora con telaio in legno per la carrozzeria chiusa del sedan. Le officine che realizzavano mediante pressatura le parti della scocca per Chrysler non erano ancora in grado di produrre elementi di grandi dimensioni, come il tetto, e ciò comportava la necessità di completare il medesimo nel modo tradizionale, con centine in legno, rete per recinzioni, imbottitura e copertura in tessuto. Essa aveva forme che seguivano criteri realmente aerodinamici, piuttosto che estetici. Questa caratteristica ne pregiudica il successo (il pubblico è ovunque conservatore o forse la Airflow arriva “troppo presto”!) ed il modello non ottiene i favori dei potenziali acquirenti.
La parte più innovativa era quella frontale: i fari si integravano perfettamente con i parafanghi e la griglia del radiatore seguiva le curve del cofano, dalle forme molto morbide. Il lunotto posteriore diviso in due fu essenzialmente un vezzo estetico. Altre particolarità erano quelle di avere la carrozzeria che copriva parzialmente le ruote posteriori e le portiere posteriori incernierate controvento. Nella maggior parte delle automobili il motore occupava lo spazio tra l’abitacolo e l’asse anteriore. Tale disposizione diminuiva lo spazio a disposizione dei passeggeri e, per migliorare detto inconveniente, il motore della Airflow fu montato sopra l’asse anteriore.
La Airflow fu commercializzata dalla Chrysler, in chiave lussuosa, e dalla De Soto, marca economica della Chrysler. Quella della Chrysler montava un 8 cilindri, mentre quella della De Soto un più sobrio 6 cilindri, entrambi in linea. Nel suo primo anno di vita furono vendute solo 11.292 unità della Chrysler e 13.940 della De Soto, sedan e coupé. Le cifre non migliorarono nemmeno dopo il restyling della parte anteriore e degli interni. La Airflow segna, per alcuni, una cesura tra il car design europeo e quello statunitense: in Europa esso si sviluppa infatti dagli studi dell’aerodinamica applicata alle auto, influendo su consumi e affidabilità; la Airflow coglie, anzi anticipa, questa sfida, ma non convince il mercato USA. Da questo momento i designers torneranno a rivolgersi ad ispirazioni aeronautiche di puro stile o capriccio, creando il gusto per le cosiddette “finte aerodinamiche” americane…
L’Airflow si colloca nell’ambito dello stile Streamline moderno (o aerodinamico), una derivazione dell’ultimo Art Decò (dall’Expo Internazionale di Parigi del 1925) che si sviluppò negli anni ’30, enfatizzando le forme curve, lunghe linee orizzontali ed alcuni elementi nautici. Ebbe il suo apogeo negli anni 1934-1940, proponendo cambi formali in armonia con un nuovo mondo che stava sorgendo, con i miti del dinamismo, della velocità, dell’anticonformismo.
Quando io nacqui l’Aprilia era ancora in produzione. Nell’ottobre 1949, quando la stessa cessa, sarà stata costruita in 27.637 esemplari; certo il Conflitto Mondiale ed il duro dopoguerra avevano penalizzato oltremodo la produzione. La sorella minore, la Lancia Ardea, praticamente uguale all’Aprilia in scala 0,9:1, presentata in anteprima a Benito Mussolini nel novembre del 1939, sarebbe rimasta in produzione fino al 1953.
Gianni Lancia, figlio del fondatore, dovette cedere l’impresa, anche per la sua grande passione per le corse – ereditata dal padre – che aveva prosciugato le magre risorse dopo i bombardamenti della guerra, l’occupazione, l’irrequietezza politico-sindacale precedente le elezioni dell’aprile 1948, le ridotte disponibilità di una potenziale clientela impoverita, sullo sfondo di un Paese da ricostruire, povero d’acciaio e di tutto (ricco solo della voglia di risollevarsi); le difficoltà di un’impresa automobilistica che fabbricava prodotti di qualità, ma a costi – e conseguentemente prezzi di vendita – più elevati di quelli della concorrenza.
La Lancia era così passata nel 1955-‘56 nelle mani di un cementiere bergamasco, Carlo Pesenti, che ebbe buone intuizioni industriali e tecnologiche (venne costruito anche il nuovo stabilimento di Chivasso, nel 1963, per la “Fulvia”, dopo che negli Anni ’30 aveva schiuso le porte quello di Bolzano per i veicoli industriali), ma non abbastanza incisive per invertire la crisi che nel dopoguerra aveva portato l’azienda a perdere quote di mercato e ad essere sorpassata dall’Alfa Romeo come secondo produttore nazionale. Le belle foto al Valentino delle nuove auto e versioni, davanti a castelli e fontane, secondo copione, seguitavano a comunicare un’illusoria sensazione di solidità.
Quando la FIAT nel 1969 acquistò la Lancia da Pesenti per il prezzo simbolico di una lira ad azione, accollandosi l’ingente indebitamento per circa 40 miliardi di Lire, la situazione per la Casa di Borgo San Paolo era quasi disperata. A detta dei tecnici FIAT non vi era un solo progetto nel cassetto, mentre le illustri “Fulvia”, “Flavia” e la solenne “Flaminia” seguivano ancora ammirate, ma ormai assai invecchiate. Solo la Fulvia coupé verrà prodotta fino al 1976. Poi, per una ventina d’anni, la Lancia parve avere un futuro.
Sergio Marchionne, amministratore delegato del Gruppo FCA, già nel 2014 ha però affermato che, malgrado la sua storia, la marca Lancia era comunque destinata alla scomparsa. Quella di Marchionne è una conclusione dolorosa, ma non priva di una sua logica: nel mondo dell’industria non c’è spazio per le glorie passate, per i sentimentalismi, e purtroppo il marchio Lancia è stato abbandonato al proprio destino, senza essere usato per commercializzare auto di successo o per competere in ámbito agonistico. Viene da chiedersi, ovviamente, come sia stato possibile che un marchio sinonimo d’innovazione tecnologica, che ancor oggi detiene il record di vittorie nei rallies e per numero di brevetti registrati, sia ora tramontato e perché la Casa madre Fiat abbia rinunciato ad investirvi ed a coltivarlo nell’ultimo quarto di secolo (cfr. http://www.savelancia.it).
L’unica sopravvissuta, la piccola Ypsilon, la fanno in Polonia e può uscire con ogni marchio. Già in Inghilterra, Irlanda, Giappone da anni è venduta come Chrysler. La Lancia non esiste più. L’area industriale ed il grattacielo di via Lancia sono stati venduti da tempo. Una squallida Sede Circoscrizionale ha preso il posto dell’antico “ingresso monumentale” di corso Peschiera angolo corso Racconigi. Ogni scritta è stata cancellata da una Amministrazione e città insensibili verso il passato. Poteva essere una degna sede del Museo Lancia, sciaguratamente smantellato, ma nessuno ha fatto nulla.
Si è letto che i cinesi del Group Guangzhou Automobile Group Co. Ltd. di Canton, già soci di FCA, sarebbero interessati ad acquistare la marca Lancia. Speriamo di no. Un’altra MG cinese, ma con molta più storia ed allori, un monumento all’eccellenza industriale italiana, proprio no!