11 Gennaio 1977. Cristina Campo, poetessa, scrittrice e traduttrice muore a Roma nella sua stanza, tra i mobili che aveva portato con sé da Firenze, nella pensione al numero 3 di piazza Sant’Anselmo, all’Aventino, dove si era trasferita nel 1965 dopo la morte del padre, il musicista Guido Guerrini.
Adesso sono in molti a riconoscere la grandezza di Vittoria Guerrini, il vero nome di Cristina Campo (continueremo a chiamarla con il suo pseudonimo preferito, per comodità), nei confronti della quale, quando era in vita, vigeva la consegna del silenzio, come ricordò Elémire Zolla: “Durante la vita Vittoria non fu menzionata da nessuno di coloro che oggi si sentono liberi di parlarne. (…..) Fino al 1980 c’era comunque un sistema di divieti, instaurati nel 1968, e rientrava in essi la proibizione di menzionare Vittoria. Fece eccezione Calasso, che osò scriverne un necrologio per il Corriere della Sera”.
Del resto, aggiungiamo noi, non è che Cristina Campo soffrisse di questa esclusione dal mondo delle lettere italiane dal quale si teneva volutamente discosta; sempre lontana dai salotti alla moda e dai premi letterari.
In una lettera scrisse: “A Roma non vedo che pochissima gente (…) se avessi tempo per altre compagnie non troverei che poveri letterati, più remoti per me dei marziani, o gente ricca, estremamente volgare e tutt’al più volenterosa. Non esiste una società a Roma, non uno stile di vita. E del resto, chi ha voglia di conversare bevendo il the e guardando il fiume scorrere sotto i luminosi archi dei ponti, qui dove il disastro spirituale inquina l’aria, dove ogni forma di bellezza è contaminata dal tradimento e dal sacrilegio? Vivere in una Città santa in tempi di apostasia è infinitamente più atroce che vivere in una città profana, come è in fondo Firenze pur nel suo grande stile”.
Roberto Calasso ha scritto di lei a questo proposito: “ha lasciato una traccia di poche pagine imperdonabilmente perfette, del tutto estranee a una società letteraria che non aveva occhi per leggerle. Ma sono pagine che troveranno in futuro i loro lettori – e allora appariranno come una sorpresa davvero sconcertante”.
E’ andata proprio così, si continua a riscoprirla Cristina Campo. Lo fecero alla fine degli anni ’90 a Firenze alcuni diversissimi intellettuali in un convegno di studi su di lei durato due giorni; tra essi, il filosofo Massimo Cacciari, il poeta Mario Luzi, lo scrittore Guido Ceronetti, il saggista studioso di fantasy Gianfranco de Turris e il direttore delle edizioni Adelphi, proprio quel Roberto Calasso a cui si deve la pubblicazione di scritti su e di Cristina Campo nelle prestigiose collane delle sue edizioni.
Era nata il 19 aprile 1923 a Bologna, figlia del musicista compositore Guido Guerrini.
Nel 1928, quando aveva cinque anni, la famiglia Guerrini si era trasferita a Firenze dove il padre era stato chiamato a dirigere il Conservatorio musicale Luigi Cherubini che funziona e forma musicisti dal ‘700 quando lo realizzò il nostro Granduca Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena.
Firenze divenne la vera città di Cristina, dove sarebbe rimasta fino a metà degli anni ’50; una città che le entrò nella carne e nello spirito, l’unica davvero amata al punto da considerare il trasferimento a Roma, un esilio.
Nella città del Giglio frequentò le elementari all’Istituto di Santa Reparata poi, a causa di un serio problema cardiaco che la costringeva a lunghi periodi di riposo, proseguì gli studi solo con insegnanti privati e i libri del padre.
Da autodidatta fece studi vastissimi, tra i quali anche lo studio delle lingue (francese, tedesco, inglese, spagnolo), al punto da diventare una eccezionale traduttrice. Su consiglio del padre, giovanissima, si cimentò con la traduzione di un libro sul musicista Sibelius.
Ricorderà: “Avevo nove o dieci anni…. e dopo aver dato fondo alle fiabe, ai volumi di storia sacra e a tutto quanto si poteva (….) pregai mio padre di lasciarmi leggere qualche libro della sua biblioteca. Egli, con un gesto, l’escluse quasi tutta: “Di tutto questo, nulla”, mi disse; poi, indicandomi una scansia separata: “Questi sì, puoi leggerli tutti, sono i russi. Troverai molto da soffrire ma nulla che possa farti male”.
Il maestro Guerrini, notissimo a quei tempi, era anche uno degli organizzatori del Maggio musicale fiorentino, la sua casa era uno dei luoghi intellettuali della città, vi si potevano incontrare Giovanni Papini e Ardengo Soffici, Ugo Ojetti e Carlo Delcroix. Furono anni felici e intensi nonostante la malattia di Cristina.
Dopo il 25 luglio 1943, con la caduta del Fascismo, anche il musicista Guido Guerrini, che nel fascismo aveva creduto, entrò nell’occhio del ciclone; il villino di famiglia, al Campo di Marte, fu saccheggiato da una folla di scalmanati. Per fortuna la famiglia aveva trovato riparo nel convento di San Gerolamo a Fiesole.
Dopo l’8 settembre, con la nascita della Repubblica Sociale, il maestro Guerrini si schierò con la RSI. In quel settembre di guerra la diciottenne Vittoria dovette subire un altro duro colpo. Negli anni dell’adolescenza si era legata alla coetanea Anna Cavalletti, come lei fine poetessa, la inserirà poi nell”Antologia delle ottanta poetesse”, assieme a Vittoria Colonna e ad Emily Dickinson. Ma Anna mori, diciottenne, uccisa dai bombardieri inglesi che colpirono Firenze il 25 settembre 1943.
Inaspettatamente, primo di una serie di bombardamenti sulla città d’arte, priva di obiettivi militari, nella generale convinzione che sarebbe stata risparmiata. Un bombardamento che colpì varie zone della città portando distruzione e morte sulle Scuole Pie in via Lamarmora, all’Ospedalino Mayer, al Campo di Marte, nelle zone di Rifredi e di Montughi, al Giardino dell’Orticultura…. A sera decine di cadaveri erano allineati in improvvisate camere mortuarie: 27 nella scuola “Giotto”, 42 a Santa Maria Nuova, altri 42 al Romito….
Anche la diciottenne Cristina in quei frangenti volle fare la sua parte: fu traduttrice al Comando tedesco della Wehrmacht a Fiesole.
Una sera, durante un allarme aereo, la raccolsero sulla loro auto due ufficiali, uno era della X MAS, l’altro della Folgore, il Maggiore Mario Rizzatti che morirà il 4 giugno del 1944, alla testa dei suoi uomini, contro i carri armati anglo-americani, alle porte di Roma, nell’ultima disperata difesa della città. Ricorderà Cristina: “Ho ancora di fronte i loro visi, le loro mani. Erano squisiti e di una serietà quasi tetra”.
Quando il fronte si avvicinò a Firenze e ormai apparve chiaro che, nonostante la unilaterale dichiarazione tedesca di “Firenze Città aperta” per proteggerla, almeno per la parte loro, dalle devastazioni della guerra, gli Alleati (o meglio gli inglesi di Alexander, come spesso ricordo in queste Effemeridi) l’avrebbero travolta anziché girarci attorno per raggiungere la Linea Gotica, anche per la famiglia Guerrini si impose la scelta di cosa fare.
Cristina, con il suo carattere fortissimo, pretendeva di seguire la ritirata, magari anche arruolandosi nel Servizio Ausiliario Femminile, trasferendosi a Bologna, sempre in territorio repubblicano. Il padre invece non volle lasciare il Conservatorio e decise di fermarsi a Firenze. Cristina pianse per la devastazione della città, per la distruzione dei ponti, compreso quello dell’Ammannati su disegno di Michelangelo, il Cinquecentesco ponte a Santa Trinita, uno dei più belli d’Europa. Si salvò solo il Ponte Vecchio per intervento diretto di Adolf Hitler.
Con la caduta di Firenze, nell’agosto 1944, il maestro Guido Guerrini fu rinchiuso nel carcere delle Murate per due settimane, durante le quali, tutti i giorni Cristina bussò alla porta della prigione. Poi fu trasferito nel campo di concentramento di Collescipoli (Terni), dove rimase fino a luglio del 1945.
Scriverà la biografa di Cristina: “Da allora in poi gli sconfitti saranno sempre per lei eroi dolcissimi, al di là delle loro colpe”.
Per il padre di Cristina, dopo il carcere e il campo di concentramento scattò anche l’epurazione dal lavoro. Solo nel 1947 poté tornare a dirigere, questa volta il Conservatorio di Bologna, poi quello di Santa Cecilia a Roma. Terminerà la sua carriera sedendo nel Consiglio Superiore delle Belle Arti.
Ma nella Firenze del dopoguerra, Cristina – ricorderanno alcuni amici – per la strada, lodava ad alta voce Mussolini per il gusto di scandalizzare i passanti…. In quel periodo fu anche animatrice di un cenacolo di poeti; fu allora che conobbe ed iniziò una relazione con il germanista e poeta Leone Traverso. Nello stesso periodo iniziò il lavoro di traduttrice dal tedesco per l’editore Bemporad. Il rapporto con Traverso cessò quando questi ottenne una cattedra universitaria ad Urbino.
Cristina rimase a Firenze, continuando la sua attività letteraria.
Impossibile non imbattersi in lei per chi si occupava di cultura, soprattutto gli stranieri a Firenze. Nel 1952, con Gianfranco Draghi, che era stato partigiano (lui ricorderà: “Cristina sapeva che ero stato nella Resistenza, ma rispettava le mie idee. Evitava volutamente di parlare di politica”) fondò “La posta letteraria”, un’avventura culturale con i poeti Mario Luzi e Alda Merini e il germanista Ferruccio Masini. Narrerà ancora l’ex resistente Draghi: “Ricordo lo scandalo che suscitammo quando pubblicammo nella stessa pagina Machado, Pound e Brasillach!”.
Negli anni ’50 mise mano al progetto dell'”Antologia delle ottanta poetesse” al quale abbiamo già accennato, per l’editore Gherardo Casini.
Il 1956 fu un anno importante: conobbe Ignazio Silone e Corrado Alvaro, si batté per Danilo Dolci, il poeta della non-violenza, il “Gandhi italiano” arrestato in Sicilia per aver organizzato uno sciopero alla rovescia: centinaia di disoccupati che si misero a lavorare pacificamente per il rifacimento di una strada comunale abbandonata…. fermati dalla Polizia, e Dolci finì in carcere e sotto processo suscitando generale indignazione!
Cristina fece parte del comitato per la libertà di Dolci (che al processo fu difeso da Piero Calamandrei) obtorto collo a fianco del da lei destato, “l’irritante” Alberto Moravia.
Ma il ’56 fu anche l’anno della rivolta ungherese. Cristina, nonostante la sua salute cercò di partire per raggiungere gli insorti sulle barricate ungheresi ma dovette limitarsi all’invio di aiuti e ad accogliere i profughi. Si batté anche per l’indipendenza di Cipro e contro l’arroganza inglese.
Quello fu anche l’anno della pubblicazione, grazie all’editore Vanni Scheiwiller, di “Passo d’addio”, raccolta di poesie di addio alla Firenze della sua giovinezza.
L’anno successivo l’incontro con Elémire Zolla, il filosofo e studioso delle religioni con il quale stabilì una difficile relazione sentimentale che proseguì fino alla morte.
Per Zolla fu anche una svolta intellettuale, il distacco dall’ambiente torinese, da Adorno e dalla Scuola di Francoforte, per volgersi verso la mistica pagana e cristiana, René Guénon e gli altri maestri della Tradizione. Con Zolla, Cristina collaborò anche alla redazione dell'”Antologia dei Mistici dell’Occidente”.
Nei primi anni ’60 pubblicò “Fiaba e mistero” e lavorò ancora a molte traduzioni, particolarmente importante quelle di “La Grecia e le intuizioni precristiane” e “Venezia salva”, ambedue di Simone Weil.
In quel periodo, tra le sue frequentazioni ci furono anche Guido Ceronetti, il giovane Roberto Calasso (futuro direttore di Adelphi) e l’egittologo Boris de Rachewiltz, genero di Ezra Pound.
Dopo il Concilio Vaticano II, buona parte dei suoi sforzi pubblici furono concentrati nella difesa della lingua latina nella liturgia cattolica e del canto Gregoriano. Prese contatti con monsignor Marcel Lefèbvre, mentre Zolla, che condivideva la sua indignazione, colse l’occasione per allontanarsi dalla religione cattolica.
Cristina invece dette battaglia: raccolse firme per un Manifesto; furono con lei Jorge Luis Borges, Robert Bresson, Giorgio De Chirico, Salvador de Madariaga, Jacques Maritain, Julien Green, Gabriel Marcel, Salvatore Quasimodo, Arnold Toynbee e molti altri.
Stimolò e prese parte alla redazione del “Breve esame critico del Novus Ordo Missae” che uscì con le firme dei cardinali Alfredo Ottaviani e Antonio Bacci.
Addirittura riuscì a dar vita ad un movimento internazionale per la difesa dell’antica liturgia e della Tradizione cattolica: Una Voce. Assieme a lei, come vice presidenti, c’erano lo scrittore Giovanni Macchia ed Eugenio Montale.
Costretta a retrocedere, sempre più, alla ricerca disperata delle ultime isole della bellezza, nel suo trasferimento a Roma per seguire il padre, frequentò l’abbazia benedettina di Sant’Anselmo fino a che anche lì la liturgia volgare non sostituì quella tradizionale, poi si ritirò nel rito bizantino del Collegium Russicum, l’istituzione pontificia per l’Oriente nella quale ancora i riformisti non avevano trovato spazio e dove si poteva ancora trovare la spiritualità che aveva incontrato tra i monaci trappisti.
Il suo desiderio di perfezione, l’amore per la parola, la bellezza e il misticismo, irrimediabilmente furono l’ennesima battaglia perduta, stroncati dalla svolta conciliare.
Negli ultimi anni di vita si immerse nello studio, nella meditazione, nel lavoro, sempre preoccupata per la distruzione dell’armonia del mondo.
Nel 1971 per il tramite di Alfredo Cattabiani pubblicò da Rusconi “Il flauto e il tappeto”, mentre Elémire Zolla, quasi in parallelo, grazie ad una casa editrice “di sinistra”, la fiorentina Nuova Italia, dava vita alla rivista – per me bellissima – “Conoscenza religiosa”. Anche Cristina vi pubblicò alcuni saggi, come “Sensi soprannaturali” e, poco dopo la sua morte, fu pubblicato il suo poemetto “Diario bizantino”.
L’aggravarsi della sua salute la costringeva a non lasciare Roma; tra le sue amiche romane, Maria Grazia Bottai, figlia dell’ex ministro della Cultura durante il fascismo. L’ultimo suo libro fu “Detti e fatti dei Padri del deserto”, pubblicato da Rusconi nel 1975.
Morì per l’ennesima crisi cardiaca, a 54 anni. Placido Procesi, lo studioso della Tradizione che fu anche medico ed amico di Julius Evola, ebbe a dire: “Viveva l’idea della morte con un atteggiamento religioso. Non pensava alla morte, pensava alla sua immortalità”.
Di lei scrisse Ceronetti: “L’occhio ape della Campo vaga dalla fiaba al gregoriano, dal proverbio popolare al rito bizantino, da Proust a Borges, da Lawrence Oliver a Gerard Philipe (“ultimo abitatore moderno del regno elfico”), da Shaharazad alla Mazurka, e sempre stacca qualcosa di vertiginoso e di essenziale”.
Alcuni dei suoi scritti saranno pubblicati postumi, in Italia ma anche in Francia da Gallimard. Altri continuano ad uscire grazie alla paziente opera di ricostruzione di taluni, come l’epistolario uscito nel 2000 da Adelphi, “Lettere a Mita”, 240 lettere scritte all’amica Margherita Pieracci Harwell tra 1956 e 1975.
La sua bibliografia è impossibile da ricostruire, innanzitutto per l’uso depistante degli pseudonimi; se ne conoscono alcuni con i quali firmò i suoi scritti per riviste, quotidiani, trasmissioni radiofoniche: Puccio Quaratesi, Giusto Cabianca, Bernardo Trevisano, Benedetto P. d’Angelo, oltre a quello più noto di tutti, che anche io ho utilizzato in queste righe: Cristina Campo. Ma anche per l’eccessiva riservatezza con la quale conservò i suoi scritti, con un impegno notevole nel nascondersi nell’anonimia e, nonostante ciò, si lamentava di aver scritto anche troppo.
L’ultimo danno, quasi un destino che accomuna anche altri mistici – come vedremo -, al momento della sua morte. Gli eredi, gli zii, si divisero i beni ma tralasciarono la montagna delle sue carte (quaderni, manoscritti, appunti, lettere, agende, fogli sparsi…); tutto fu buttato in una grande cassa che non si sa che fine abbia fatto, probabilmente gettata nell’immondizia dai facchini che si occuparono del trasloco. Una sorte, come dicevamo, riservata anche al mio Maestro fiorentino, Attilio Mordini, i cui scritti, dopo la morte dei genitori finirono con i mobili di casa, nel barroccio di un rigattiere, pagato per portarli al macero.