E’ andata come da previsioni. Di Francesco, ambasciator (di Pallotta) che porta pena e che in conferenza prepartita annunciava laconico la mancata convocazione di Nainggolan, sempre per i fattacci del capodanno “mbriaco fracico”, aveva ragione ad essere avvilito, in cuor suo. La gara della Roma contro lo stratega Gasp è stata una sciagura: Strootman goffo e macchinoso, Gonalons un eterno rincalzo, Pellegrini ha fatto ciò che ha potuto, smarrito e smanceroso. Una mediana imbambolata, incapace di rialzarsi anche dopo la dubbia espulsione di De Roon: nessun collante tra i reparti (mancava pure De Rossi), grinta pari a zero. Insomma, mancava Nainggolan.
La reprimenda della dirigenza (o dei media?) è scriteriata. Non solo perché la bubbola tediosa del calciatore come integro esempio morale non se la beve più nessuno, per fortuna – il belga si è concesso una bevuta, ha fatto ciò che hanno fatto, o avrebbero voluto, quasi tutti i jeunes occidentali: i maestri di carattere dovremmo cercarli altrove e sono ben altri -, ma perché Nainggolan è esempio calcistico, sul campo. E tanto basta. I suoi novanta minuti, cuore e polmoni, hanno una foga insostituibile, soprattutto se l’alternativa è l’indolenza sfoderata nell’ultima giornata dalla marmaglia di Joao Mario, Borja Valero, Ranocchia o, peggio ancora, il passetto impomatato di chi ruzzola non appena sfiorato. Contro queste flemmatiche abitudini, saremo sempre dalla parte dell’eccesso, del bicchiere pieno di George Best, del pacchetto da venti di Hubner, della sigaretta di Platini e di Riva. E, ovviamente, di Nainggolan, che, timidamente contestato e buttato sul mercato, ha già i suoi adulatori: primo fra tutti è l’Evergrande di Cannavaro.