Il mio Natale nelle “fogne”
“Tu le bombe mettile al posto giusto”.
Il Golpe Borghese come spunto polemico. Pretesto di discussione. Miccia dialettica.
“Ma quali bombe!”.
“Il Msi? Un cimitero di elefanti”.
“E voi di Avanguardia Nazionale sareste i rivoluzionari?”. Duellanti di generazioni diverse che ballano su un ring immaginario, cambiano posizione e argomenti, schivano i colpi dell’avversario, tentano a loro volta l’affondo, ripiegano sulle corde e infine cercano il conforto dei secondi nei piccoli break tra un round e l’altro.
È il 1977, forse il 1978. Io di anni ne conto una decina e più che secondo sono terzo o quarto. Discorsi da uomini, lo so. Già assistervi è un privilegio. Gli uomini della mia famiglia, riuniti attorno alla tavola natalizia, avvolti in una densa nube di fumo. Sigari, rigorosamente toscani, qualche cubano. I giochi non esercitano più alcun fascino su di me quando vanno in scena uomini come zio Nino. Bello di una bellezza sfrontata, l’ex capitano della Folgore che parla di politica è uno spettacolo cui non chiedo altro che assistere, pregando di potergli anche soltanto assomigliare, un giorno. Trattengo il respiro, spero che nessuno si accorga di me. Poi, inevitabilmente, accade. Mia nonna protesta: “Ma vi sembrano cose da dire davanti ai bambini?”. I bambini, in realtà, non si accorgono di nulla, continuano a rotolarsi sul divano e a far correre macchinette nuove di zecca. Sono io a essere trascinato nell’aria tersa della cucina satura solo degli odori del lauto pranzo. Mia nonna è talmente grande che le mie braccia strette attorno a lei non riescono a toccarsi. Mi fa sedere, spegne la televisione. Racconta. “La prima volta che lo vidi ero nella Gioventù Italiana del Littorio, era una domenica e lui venne a passarci in rassegna…”. Lui è Mussolini, neanche a dirlo. “Era buono, troppo buono – sussurra abbassando il tono della voce – e infatti gli hanno fatto fare quella fine terribile…”. Si guarda intorno, sembra pensierosa, forse si domanda se un’impiccagione è violenza troppo atroce per le orecchie di un adolescente. “E comunque – conclude – sono cose che studierai a scuola”. Pausa. “Anche se non devi credere a tutto quello che leggerai. La storia l’hanno scritta loro, i vincitori”.
Non ci ho creduto. Fascisti cattivi e partigiani buoni. Troppo facile. Puro manicheismo: luce da una parte, tenebra dall’altra. Mi basta pensare alla mia famiglia, a quegli uomini caduti infinite volte e sempre in piedi, col sorriso. Uomini che parlavano disinvoltamente di bombe e mai avrebbero fatto del male ad alcuno. Quelle donne silenziose, capaci di rimboccarsi le maniche, di ricominciare, senza coltivare stravaganti ambizioni. C’erano fascisti e fascisti, partigiani e partigiani. Lo sapevo ben prima che Giampaolo Pansa e pochissimi altri iniziassero a scrivere delle stragi partigiane, degli stupri su giovani innocenti e degli omicidi consumati ben oltre la fine della guerra. Mi bastava guardare la mia famiglia. Mi è sufficiente chiudere gli occhi per rivederli tutti tra tovaglie rosse e bottiglie di vino, carte da gioco e risate. Gente allergica a ogni raccomandazione, abituata a cavarsela con le proprie forze, pronta a dare senza mai chiedere, pronta a sbagliare, talvolta. In un impeto di generosità zio Nino, poco più che ventenne, era partito per l’Africa congedandosi dai suoi con un biglietto. Nel mio studio campeggiano due sue foto, una con l’imbracatura da lancio e l’altra in divisa da ufficiale circondato di palme e luce, con un sorriso che del fascismo dice più di quanto possa riferire qualsiasi testo di storia. Eppure in quelle lunghe giornate di festa mai un discorso di guerra. Nessuna concessione al rimpianto, nessun siparietto nostalgico, nessun furore anticomunista. Solo una gran voglia di divertirsi, una feroce fame di futuro, una voglia di prendere il mondo a morsi, di giocarsela fino in fondo, senza mai risparmiarsi.
Non c’è Natale che il mio pensiero non vada a loro. Non c’è più zio Nino, non c’è più Raffaele, non c’è più Wladimiro, non c’è più Ines. Siamo rimasti in pochi e quando Natale mi sembra solo una festa comandata, se non proprio una seccatura almeno una noia da lasciarsi in fretta alle spalle, penso a loro, a quell’energia che sventure d’ogni genere non erano riuscite a domare, a quell’entusiasmo per la vita che sapevano comunicarci senza spendere parole retoriche. E mi viene da sorridere. E alzare il calice per brindare. Alle nuove avventure che ci aspettano. Perché noi ci faremo trovare pronti e degni.