Questo di Matteo Fais è un libro anomalo, nel senso che è come un contenitore letterario nel quale sono posti, diligentemente ma non solo, un romanzo breve e alcuni racconti. Si potrebbe pensare che ci si trovi davanti a un’opera omnia in sedicesimi: una raccolta di scritti, in questo caso narrativi, che possono essere già un mondo fatto e costruito, una specie di rappresentazione stampata di un modo di pensare, di essere e di voler non essere, in ultima analisi.
Il titolo del libro, L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde, sembra ripetere l’atteggiamento dei Marines sotto stress che snocciolavano nefandezze e oscenità, sul fronte vietnamita, per darsi un contegno e rinsaldare il coraggio. Molti, diversamente, fanno i cinici dell’ultima ora, si cibano di cioranismo perché fa chic ravanare mediante intellettualismo di seconda o terza mano sui maestri della negazione da un comodo salotto di casa, da un resort collocato nei Mari del Sud o del Nord o dove diavolo loro pare. Il cocktail, per queste persone, si addice al pensiero di Cioran come il lutto si addice, anzi si addiceva, a Elettra.
Ma Fais non sembra scrivere per un pubblico particolare, campionato, politicamente individuabile e soprattutto corretto. Sembra ancora lontano a venire il tempo in cui non ci saranno corretti e scorretti, in cui non avremo paura di ciò che siamo, in cui anche il politicamente scorretto sarà diventato un brand, o un brandy, o una marca di jeans Chicago (“e me ne vado”, come recitava l’antico slogan) o forse, addirittura, a questo benedetto punto ormai ci siamo. E questo sembra dirci Fais con il romanzo e i racconti, i quali a loro volta potrebbero espandersi e diventare romanzi se solo lo volessero… Perché l’autore isolano e in certo senso anche isolato, ma per scelta esistenziale, potrebbe confezionare con i suoi racconti interi romanzi, come certuni, con lo stesso nucleo narrativo, fanno. Ma non è questo che l’autore desidera. Lui preferisce dire il senso spesso avvalendosi del nonsenso, con un contagocce espressivo che manda in tilt qualsiasi ricercatore dell’effettistica. Perché la vita non ha una spiegazione certa, noi siamo su una barca sulla quale non siamo nemmeno saliti, perlomeno questo non lo ricordiamo, forse ci ha depositati un elisoccorso, nuova cicogna rotante.
Andiamo a esaminare di cosa ci parla questo libro. Prima di tutto, tra il romanzo breve, o racconto lungo, e i racconti che seguono non esiste sbalzo d’umore e di stile. Il mondo di questo libro se la passa male, ha paura di vivere, è un mondo realistico e, proprio per questo, deturpato e grottesco. Se Dio si è intestardito nel suo mutismo, se nessuna strada porta da nessuna parte – e hai voglia a costruire mostri autostradali a nove corsie, a lanciare astronavi nello spazio di cui sappiamo solo la briciola che riusciamo ancora a vedere – come potremo noi umani, quasi sempre sconfitti con qualsiasi tipo di reddito finanziario, avanzare verso una felicità che è null’altro che una palude di sogni prescritti dove si può soltanto affondare?
Fais è noto per essere un critico letterario certamente non allineato col sinistrismo culturale, anzi. Non ama la truppa, preferisce agire in solitaria, quasi come un anarca di Jünger. Non si fa illusioni e i suoi personaggi, non autobiografici in senso stretto ma vicini per avventura o disgrazia alla sua mentalità, hanno mangiato il pane duro della delusione e della disillusione. Si ficcano in situazioni squallide che quasi sempre sfociano nel grottesco. Fais ha letto bene i maestri internazionali del racconto, come Carver e Cheever. Inoltre ha approfondito le linee del romanzo che non vuole insegnare nulla, ma che vuole dire, sputare in faccia al lettore, a volte solo per incidente, la verità nuda. Di una nudità oscena, come quella delle prostitute all’ultimo stadio di decomposizione da vive di Grosz e Dix. L’amore è un imbambolamento, come nel romanzo, o una presa decisa per i fondelli. Nel mondo del nostro giovane autore non manca il sentimento e non può mancare il gesto d’umanità. Ma, parlandoci chiaro, ciò che di bello la natura ci ha dato si trasforma in poltiglia emotiva, e le speranze vengono disattese. Nulla diventa verde, cioè non si passa quasi mai dall’inverno alla primavera, ma, all’inverso, tutto marcisce da un’estate che è già morente verso l’autunno del nostro proverbiale scontento.
In sottofondo, possiamo udire il ronzio del motore di Houllebecq, un autore forse non ancora abbastanza celebrato, un uomo che ha raccolto il testimone di La Rochelle, soprattutto del vulnus del suo fuoco fatuo. Si va per forza verso la fine, l’importante è renderla in certo modo più bella, asciutta, potrei dire virile, femministe permettendo. La dignità ci lega al possibile, a ciò che nonostante tutto possiamo raggiungere. Magari, come nei personaggi di Fais, per vie sporche e tortuose. Un gran bell’esordio, dunque, di uno scrittore senza condizionamenti. Se quella del suo libro sia la verità non sappiamo. Nessuno dice la verità, in fondo, nemmeno in buona fede. Certo è che la letteratura conta la sua forza sul come, da cui scaturisce, quando siamo fortunati, tutto il resto.