Ci siamo detti centinaia di volte che la Bellezza è l’unica cosa che conta. Ineffabile, irriducibile al linguaggio umano, è (soprattutto) l’unica cosa che davvero esista, libera e inafferrabile. Chi la canta non può avere la presunzione di incasellarla, di volerla intruppare in parole, parole, parole. L’esorcismo, in fondo, funziona così: una volta che al mistero dai un nome, esso stesso si dà un limite, cessa perciò di esistere come tale e la sua caducità lo trasforma in epifania del male.
La Bellezza, invece, non teme niente. Quando la si evoca, se chi lo fa non è suo innamorato e devoto (un tempo si sarebbe detto amato dalle Muse), semplicemente Essa non si mostra. E così accade quando ci troviamo a dover assistere a barbose lezioni, a noiosi appuntamenti sovvenzionati dalla ragion di Stato, a patetici solipsismi ricchi di compiaciuta ubris. È esperienza che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo provato.
Quello che invece, almeno una volta nella vita, dovremmo tutti provare è la contemplazione del Bello. Che rarissime volte si mostra in pubblico, osserva la legge dell’amicizia di Epicuro, e solo ai suoi amici la Bellezza risponde. E tali sono, ma non lo scopre chi scrive, il pianista Nazzareno Carusi e il critico d’arte Vittorio Sgarbi.
Il “Discorso a Due” rappresentato nei giorni scorsi al teatro Verdi di Salerno è spettacolo che nasce sei anni fa dall’idea di Carusi e dall’adesione entusiastica di Sgarbi. Fondere musica, arte e letteratura, recitazione ed esecuzione pianistica non è (come sembrerebbe) cosa di questi tempi. Anzi, di “contemporaneo” (inteso nel senso delle mode artistiche del momento) non c’è nulla.
La recitazione di Sgarbi, l’interpretazione musicale di Carusi si uniscono in un solo inno alla Bellezza, che parla mille linguaggi che si sciolgono in miriadi di suoni e rifrazioni luminose, per renderle lode. La pittura di Raffaello e di Salvator Rosa incontra Michelangelo Buonarroti e Gian Battista Strozzi, si sublima nella potente ispirazione musicale che incussero al genio delicato e al contempo forte di Franz Liszt.
Nello spettacolo, che si rivela potente e rivelatore, non c’è una parola, né una nota, né una diapositiva di troppo. Seguono l’insegnamento che il pittore napoletano Salvator Rosa ha infilato nel suo autoritratto: “Aut tace, aut loquere meliora silentio“. Lo sguardo torvo di Rosa ricorda, sulle note della Canzonetta che a lui dedicò Liszt, il più grande (e scordato) insegnamento della classicità, quell’aurea mediocritas trasmessaci da Orazio che tutti abbiamo rinchiuso, insieme ai dizionari, nei polverosi ricordi di scuola.
Il loro inno, che ad avere coraggio e strafottenza si potrebbe dire orfico, raggiunge l’acme nel melologo che Carusi ha pensato unendo la sonata lisztiana Dopo una lettura di Dante alla recita del Quinto Canto della Divina Commedia.
Il melologo funziona, la musica spiega – come meglio non si potrebbe – tutte le spigolature dantesche, le variazioni, le accelerazioni: la lettura sgarbiana e l’interpretazione pianistica di Carusi restituiscono carne e spirito alle pene infernali di Paolo e Francesca, disegnano nella levità dell’aria l’insopprimibile gravità del tormento eterno che avvince, nella potenza del turbine, le due anime dannate dall’amore.
Questo spettacolo è un’esperienza da vivere con rispetto e trasporto, Sgarbi e Carusi scelgono (e se lo possono permettere) la via difficile della contemplazione, non quella semplice della divulgazione.
Non si seziona l’Arte per trarne leggi fisiche o morali, non si presume di dar limiti al genio; il canto è strumento, quasi rito, per celebrare e non per esorcizzare la Bellezza. Non si concedono alcuna facile scorciatoia didattica, Sgarbi e Carusi non vogliono fare la lezioncina che ti fa uscire dalla sala con l’illusione di saperne di più del vicino di casa. Loro testimoniano, con il canto e (soprattutto) con lo studio, il loro invincibile amore e la loro devotissima passione alle Muse. Che il Signore li benedica e ce li conservi così.