Una delle giustificazioni più plausibili dell’istituto giuridico della prescrizione è rappresentato non tanto dalla considerazione che, a distanza di decenni, il responsabile di un delitto possa essere profondamente cambiato, ma dal dato di fatto che magistrati togati o giurie popolari, specie qualora si tratti di giudici molto più giovani degli imputati, sono inclini a valutare il comportamento del reo in base ai parametri del presente, senza tener conto dell’evoluzione della sensibilità collettiva dal momento in cui è stato consumato il vero o presunto reato. Naturalmente un omicidio è sempre un omicidio, un furto anche. Ma ci sono comportamenti la cui valutazione etica e di riflesso giuridica è profondamente cambiata nel corso del tempo, anche se la lettera della legge è rimasta la stessa: il Codice può rimanere immutato, la giurisprudenza cambia. Basta pensare alla diversa interpretazione di norme come quelle che puniscono l’abuso di mezzi di correzione, gli atti osceni in luogo pubblico o l’abbandono di minore.
Il caso più evidente è costituito dall’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità (ma esistono reati di sangue che non siano crimini contro l’umanità, a meno che non si parta dall’assunto che esistono uomini più umani degli altri?). Quello che pareva scontato ai magistrati militari di settant’anni fa, in genere ufficiali di carriera persuasi dell’impossibilità di disobbedire agli ordini, non lo è per i loro colleghi dei giorni nostri, in genere civili che magari non hanno fatto nemmeno il servizio di leva e comunque si sono formati all’ombra di maestri per cui “l’obbedienza non è più una virtù”. Il risultato è che novantenni perseguiti tardivamente dalla giustizia militare sono stati giudicati con maggior rigore che se fossero stati processati all’indomani dei fatti. La posizione assunta da Montanelli sulla condanna “insensata” a Priebke, e la lettera di solidarietà che egli scrisse al “signor capitano”, sono molto eloquenti al riguardo.
L’istituto della prescrizione impedirà probabilmente che la catena di denunce per molestie sessuali o per stupro innescata dalle dichiarazioni di Asia Argento intasi la giustizia civile e penale. Esiste tuttavia un altro tribunale, quello dell’opinione pubblica, che sta già emettendo le sue condanne. C’è chi è stato costretto a dimettersi da ministro o da parlamentare, chi ha visto bruscamente interrotta la sua carriera di attore, fotografo o produttore, chi è stato indotto al suicidio, come il laburista gallese Carl Sargeant. Nei primi casi, vista la caratura morale degli interessati, si sarebbe tentati di definire manzonianamente “mal date, ben ricevute” queste condanne. Weinstein e molti altri implicati nelle denunce appartengono a quel patinato mondo di cineasti liberal da sempre vicino al partito democratico, che aveva tentato di utilizzare le armi del “sessualmente corretto” nei riguardi di Trump e si è visto ritorcere contro i suoi argomenti. Dopo avere inveito per decenni contro il maccartismo, si è visto sottoposto a una nuova forma di giustizia sommaria. Ma ormai il vaso di Pandora è stato scoperchiato e rischia di coinvolgere tutti, senza distinzioni fra destra e sinistra, conservatori britannici ed ecologisti austriaci, nazioni di cultura protestante o di tradizione cattolica, nuovo mondo sessuofobico e matriarcale e vecchia Europa, cristiani e musulmani, eterosessuali e persino gay. Colpisce come gli interessati accettino rassegnati questa giustizia mediatica a scoppio ritardato: desiderio di espiazione, gigantesca coda di paglia o mera consapevolezza che il tribunale della pubblica opinione ha comunque già pronte le sue sentenze, fondate sulla presunzione di colpevolezza del maschio?
Il caso di Giuseppe “Popi” Saracino
Si potrebbe osservare che il caso di denunce per stupro o per molestie che hanno coinvolto uomini di sinistra non è affatto nuovo. Nel 1980 a Milano Giuseppe “Popi” Saracino, un professore di liceo che era stato fra i protagonisti del Movimento studentesco, fu accusato di violenza carnale da una studentessa maggiorenne con cui aveva avuto un rapporto sessuale burrascoso ma consenziente. Arrestato e condannato in primo grado, fu assolto in appello: la sentenza, fra l’altro, fu redatta da un giudice relatore donna. Vi fu chi parlò di un “processo al ‘68”, ma il caso va forse inquadrato nell’ambito di una rivalsa femminista nei confronti della leadership maschilista del Movimento. In ogni modo, la carriera di Saracino fu lo stesso rovinata: il ministero della Pubblica Istruzione ne rifiutò il reintegro nei ruoli, perché fornicando con una studentessa era comunque venuto meno alla deontologia professionale. Il principio era giusto, ma che dire allora di tanti guru della psicanalisi che sono sistematicamente andati a letto con le loro pazienti, violando ogni principio etico? Chi volesse saperne di più al riguardo, non ha che da consultare il documentatissimo volume di Luciano Mecacci Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi.
Il caso Scarparo
Per citare un altro esempio, nel 1993 Giacomo Marramao fu accusato di molestie da Angela Scarparo, una giovane scrittrice che lamentò di essersi sentita richiedere dal filosofo prestazioni sessuali in cambio di un appoggio per ottenere una recensione sull’“Espresso” per il suo presunto capolavoro. La faccenda finì in una bolla di sapone, ma la Scarparo sarebbe divenuta, in qualità di compagna di Paolo Ferrero, esponente di spicco di Rifondazione, assidua frequentratrice dei salotti di quella che in Francia chiamano la “gauche caviar” e a Firenze chiamiamo “la sinistra fiesolana”.
In quei casi, però, le denunce erano state sporte in maniera tempestiva: l’imputato aveva modo di difendersi. Quello che colpisce nell’Asiagate è il fatto che le doglianze riguardino eventi o presunti tali verificatisi spesso decenni prima. Chi è in grado di ricordarsi della perfetta correttezza del comportamento tenuto durante una cena o un dopocena di venti o trenta anni fa, magari annaffiato da un po’ di alcol? Le risposte di molti imputati di molestie (“non ricordo, ma forse avevo bevuto”) sono indicative al riguardo. Ma proviamo a metterci nei loro panni: è un po’ come se la Polizia chiedesse a un sospettato l’alibi per un delitto consumato venti anni prima: solo il vero assassino può ricordarsi che cosa aveva fatto il giorno del delitto.
L’Asiagate
Intendiamoci: alla base dell’Asiagate c’è una sostanza di verità. Tanto meglio, quindi, se il timore di scandali porrà termine a un malcostume finora tollerato od oggetto di rassegnata ironia. Ma per chi crede autenticamente nella libertà e nelle garanzie dell’individuo l’idea che la reputazione di una persona, a prescindere dal sesso o, come oggi va di moda dire, del “genere”, possa essere macchiata dalla tardiva denuncia di vere o presunte molestie non può non risultare aberrante. Non si tratta di “storicizzare la palpata di culo”, anche se in altri tempi certe libertà erano colpevolmente tollerate: a Montecitorio circolava una ricca aneddotica su un anziano parlamentare democristiano che non aveva raggiunto la pace dei sensi e per questo era stato soprannominato l’Antico Tastamento. E quando presidente della Rai divenne Enrico Manca, che per altro era una persona per bene, circolò subito la barzelletta secondo cui la sua nomina avrebbe moralizzato la Rai, perché “d’ora in poi per lavorare le ballerine invece di darla a destra e a manca la daranno a Manca e basta.” L’importante è rendersi conto che – tranne il caso di minori o di persone in stato di manifesta inferiorità psicologica – chi non ha parlato al momento giusto farebbe meglio a tacere per sempre.
Oltre tutto, ogni azione comporta fatalmente una reazione. Già oggi molti medici, soprattutto ginecologi, fanno visite solo in presenza di un’infermiera, con aggravio dei costi per loro, e della parcella per le pazienti. E io personalmente non do più passaggi ad autostoppiste da quando cominciò a circolare la voce di ragazzine che prima salivano in macchina, poi chiedevano cinquantamila lire ventilando la minaccia di una denuncia per stupro. Forse era una leggenda metropolitana, ma perché correre brutti rischi? Oggi autostoppisti/e non se ne vedono quasi più, ed è un peccato, perché negli anni Cinquanta e Sessanta c’è chi ha girato l’Europa con uno zaino in spalla senza spendere nulla, ma facendo molte amicizie.
E, visto che sono passato alla prima persona singolare, permettetemi un’altra confessione personale. All’alba degli anni Ottanta entrai in confidenza con uno dei maggiori critici letterari italiani, docente universitario a Firenze. L’avevo conosciuto intervistandolo in occasione di un convegno su Domenico Giuliotti e si era instaurato un rapporto di reciproca stima. Non avevo ancora trent’anni, ero un precario della scuola che arrotondava le buste paga di supplenze temporanee con i guadagni di altrettanto effimere collaborazioni. Un giorno il professore mi invitò nel suo bell’appartamento nel cuore di Firenze, in un palazzo secentesco nel cuore della vecchia Firenze. Mi offrì un whisky torbato in un salotto un po’ polveroso, dinanzi ad alcune croste di pittori anch’essi secentisti, e mi ventilò la possibilità di ottenere un posto di ricercatore. Gli feci presente che i miei pochi titoli scientifici avevano scarsa attinenza con la storia della letteratura; lui mi obiettò (vecchia storia) che nei concorsi universitari sono i commissari a decidere quali titoli hanno attinenza. Sarebbe stata una svolta per la mia vita, ma purtroppo quel grande e finissimo critico aveva ai miei occhi un piccolo difetto: correva voce che condividesse i gusti di Brunetto Latini. Non mi aveva fatto nessuna avance, ma la sola idea che qualcuno potesse sospettare che io fossi entrato all’università per meriti “orizzontali” mi fece declinare i successivi inviti. Ancor oggi avverto un sottile rimorso nei confronti di quel grande studioso, che forse provava per me una stima disinteressata, ma tornerei a comportarmi così, perché reputo l’onore di una persona un capitale immateriale infinitamente superiore a qualsiasi posizione accademica. Non pretendo per questo una medaglia, ma non posso nascondere le mie riserve nei confronti di chi, dopo aver goduto dei benefici di un sistema, si accorge solo vent’anni dopo che si trattava di un sistema immorale.