Quello che stupisce osservando le foto della mostra “Vivian Maier. Una fotografa ritrovata” è la mancanza di stupore. Passando in rassegna le più di centoventi fotografie della nanny di Newyork non si prova shock emotivo, né alcuna implicazione estatica; al contrario la Rolleiflex (ri)scatta la fotografia come arte di algida lucidità espressiva. Le foto di Vivian Maier sono tracce di vita fissate nei marciapiedi, davanti alle edicole, sbucate dalle auto o dai colli di pelliccia. Pezzi di vita compulsivamente rintracciati e fissati in quel bianco e nero che per i cultori dell’immagine è dettatura dell’anima, è iride celata, è liquido poetico.
Vivian Maier non è portata a colorare il reale: quando lo fa (e accade per poche foto o per i super 8mm) i colori sono caldi ma sgranati e imbarazzati. Sembrano lì per caso. E il caso è il destino di Vivian Maier. Di origini francesi ma newyorkese di nascita, a Vivian Maier bambina capita di incontrare Jeanne Bertrand, una fotografa ritrattista che le trasmette la passione per la fotografia; poi adulta le capita di ricevere un’eredità a Champsaur (paesino delle Alte Alpi francesi che ora ospita una fondazione a suo nome) che le permette di comprare la Rolleiflex e dare sfogo alla sua curiosità di viaggiatrice con il terzo occhio; a Vivian Maier capita ancora di poter fare la bambinaia (il lavoro di tutta la sua vita, finita in assoluta povertà nel 2009), avere una camera oscura nel bagno dei datori di lavoro e nello stesso tempo di visitare l’America e l’Europa e spingersi fino in Medio Oriente e in India; e infine le capita di essere scoperta (da John Maloof nel 2007 che compra per 380 dollari il suo box pieno di foto e rullini) e di diventare così un mito del mondo dell’arte della fotografia.
Un caso che la fa doppio di Emily Dickinson. Due donne, vestali di una solitudine ossessiva e creativa. Tanto impetuosa è la poesia di Emily, tanto disciplinato è lo scatto di Vivian. E nel vortice dispettoso e generoso del caso questi versi di Emily Dickinson suggeriscono l’impassibilità dello sguardo di Vivian “La Mente è liscia – nessun Movimento – / Tranquilla come l’Occhio/ Sulla Fronte di un Busto marmoreo – /Che sa – di non poter vedere”. Vivian non può vedere la sua vita scissa dal movimento del mondo. Il “caso Vivian Maier” è soprattutto questo: la storia di una scissione della solitudine: essere alone – da sola- e voler stare dentro il mondo, nascondersi nel mondo. La solitudine come esilio involontario e la difficoltà di accompagnare o accompagnarsi impressionano la pellicola di Vivian Maier. Uno più uno non fa due per questa donna determinata, scontrosa e goffa nel suo cappello floscio e nelle scarpe maschili. La lastra fotografica non restituisce l’altro da sé o gli altri ma centinaia di Vivian Maier. Nel linguaggio l’artista si svela e Vivian Maier si svela fotografandosi mentre fotografa gli altri. Che non è solo l’autoscatto ma è proprio un volersi duplicare nei suoi soggetti, sfumarsi nei dettagli degli occhi o delle mani o delle gambe, confondersi tra i monelli e i vecchi, tra i poliziotti e gli innamorati, tra i barboni e i divi che passeggiano nelle strade di Chicago o di New York.
Il fascino dell’arte di Vivian Maier sta nella sua lettura della “street photography” innalzata a trionfo del soggettivismo. O abbassata. Vivian Maier fotografa ad altezza di stomaco: la macchina fotografica riprende i soggetti dal basso, li de-liricizza e forse così se li mette accanto. I dettagli colgono gambe e scarpe, mani intrecciate e nascoste dietro la schiena e poi salgono ad afferrare espressioni facciali e occhi.
Dura è la sua macchina fotografica quando applica il filtro bianco e nero all’America liberale, che ballava il rock ‘n roll e si inebriava di divi e di dollari, e poi sfuma la luce bianca del sogno americano nel nero dei sobborghi, della povertà e degli idranti del “Bloody Sunday”. Vivian Maier unisce povertà e benessere e New York evoca le bidonville del Sud del mondo. Una suggestione di non appartenenza di un reale a un altro reale, centro urbano e periferia esistenziale.
La singolarità di Vivian Maier sta nel lasciarsi immaginare nonostante le fotografie che la ritraggono. Tante per una sola testimoniano l’ossessione della solitudine e il suo scivolare in una sorta di garbato voyerismo. Gli autoscatti più belli e curiosi sono quelli in cui Vivian punta l’obiettivo sulla vetrina che sta guardando oppure lo abbassa a ritrarre la sua ombra: qui la suggestione del bianco e nero è il tentativo di colmare la distanza tra l’esserci e il nascondersi.
L’enigma di Vivian Maier sono le domande “Perché non pubblicò i suoi lavori?” e “Perché nascondeva il suo talento e la sua passione?”. Vivian Maier sembra un personaggio letterario nato e non compiuto, vissuto solo nelle congetture di chi analizza la sua opera o di chi la ricorda. Le sue foto lasciano pochi dubbi: tanto anonimato cela un desiderio quasi voluttuoso di accamparsi al centro dell’attenzione degli altri. Vivian giocava a nascondino ancora con il caso? Il “gioco” è riuscito? Sembra, per fortuna, proprio di sì. A proposito, i barattoli di Vivian Maier finirono per caso nell’immaginario di Andy Warhol?
*La mostra “Vivian Maier. Una fotografa ritrovata” è adesso a Catania e resterà fino al 18 febbraio presso la Fondazione Puglisi Cosentino